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Condividiamo l’editoriale di Loredana Cirillo per D di La Repubblica.

Dottoressa, erano le 15, avevo finito di lavorare e scelto di non accompagnare le bambine a danza. Ci avrebbe pensato la babysitter. Sentivo che dovevo prendermi del tempo per me. Già, bella idea… Un senso di tristezza e di vuoto, però, mi ha assalita all’improvviso. Riesco solo a fare tutto di corsa, appena mi fermo e penso di poter affrontare le cose con calma, vado in tilt. Mi sento in colpa, penso di stare perdendo tempo…».

Nel silenzio, nella noia, nel vuoto, ma anche nel desiderio di prenderci del tempo per noi stessi, possono emergere sensazioni ed emozioni che ci aiutano a fare i conti con noi stessi, che ci permettono di mettere a fuoco come stiamo davvero, cosa ci preoccupa, cosa desideriamo. Tuttavia, questa operazione può non essere sempre facile da affrontare. Per questa ragione riempire il tempo, affannarsi nel trovare sempre qualcosa da fare, che ci tenga attivi, può diventare una strategia d’elezione per affrontare la vita. Il fare spesso serve a non pensare, occupa il tempo e lo spazio che altrimenti spetterebbe a pensieri e stati d’animo a cui non ci sentiamo di offrire ascolto, magari perché ci addolorano, ci angosciano o non ci sembra di essere capaci di gestire.

Stiamo correndo tanto nel nostro tempo, tutti quanti. La staffetta collettiva diventa una fuga, non appartiene solo alla dimensione dell’obiettivo, del desiderio, della crescita. Non riuscire a stare nel vuoto è pericoloso, significa che siamo troppo spaventati dalla possibilità di dover sentire l’eco dei nostri stati interni. E se il nostro mondo interno ci spaventa così tanto, possiamo anche scegliere per il nostro bene, per difenderci, di metterci al riparo e correre alla ricerca del rumore e del frastuono, ma si tratterà solo di una soluzione temporanea, che non ci renderà realmente contenti, sereni. Prima o poi quelle voci che abbiamo frettolosamente silenziato potrebbero tornare e farsi spazio. Urlando.