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Riportiamo l’articolo di Cristina Marrone pubblicato su corriere.it il 26 novembre 2017 con l’intervista a Laura Turuani sul rapporto tra genitori e adolescenti nativi digitali.

 

Partiamo da due dati di fatto: i ragazzi di oggi, i cosiddetti «nativi digitali», sono nati e cresciuti in un contesto tecnologico e oggi chi non usa la tecnologia è considerato un outsider della società. Del resto non sarebbe pensabile presentarsi a un colloquio di lavoro dicendo di non possedere un indirizzo email o rifiutando di lasciare il proprio numero di telefono per non essere disturbati. Non è però una colpa non avere mai visto una cabina telefonica o un telefono a disco. Di sicuro la società in cui viviamo e facciamo crescere i nostri figli è di stampo narcisistico: l’avere successo, visibilità, essere riconosciuti e popolari sono qualità molto ambite. Non a caso «popolare», una parola poco usata dalla generazione degli adulti, è diventata una delle più frequenti nel linguaggio dei teenager per descrivere, spesso con invidia, chi ha molto successo. Oggi deleghiamo allo smartphone e alle tecnologie una serie di funzioni cognitive, relazionali e corporee, basti pensare alla rubrica telefonica: quanti numeri ci ricordiamo a memoria? E se non sappiamo qual è la capitale del Burundi è presto fatta, si chiede a Google. E per i viaggi, c’è il navigatore.

Il cellulare vissuto come una realtà scontata
«Tutto questo non significa che non sappiamo più memorizzare, solo utilizziamo le nostre funzioni cognitive per elaborare questioni più complesse e il telefono ci dà una mano per quelle più banali» chiarisce Laura Turuani, psicologa e psicoterapeuta del centro milanese “Il Minotauro” che da sempre studia il disagio adolescenziale e le dipendenze. In ogni famiglia con ragazzi la lotta quotidiana e frustrante tra genitori e figli su quanto tempo stanno ai videogiochi, in chat o sui social è ben conosciuta. «I giovani vivono la tecnologia, e lo smartphone in particolare, — commenta Laura Turuani — come qualcosa di cui non riescono a fare a meno. Rinunciarci sarebbe come vivere senza una mano, “ma perché usare un solo arto, se ne ho sempre usati due”, si chiederebbero? Il cellulare è una realtà che ritengono scontata. Inoltre non condannerei a priori Internet: in tutte le nostre ricerche emerge che chi usa la Rete ha di solito anche una vita di buon livello e amicizie reali, a meno che non emerga un reale disturbo patologico. Sono invece i “non utilizzatori” quelli che stanno peggio e hanno maggiori problemi di socializzazione».

Il telefono come cordone ombelicale
Altro dato di fatto è che il cellulare lo regalano mamma o papà. È una scelta educativa importante e una volta fatta non si può rinnegare. «All’inizio è spesso usato dalle mamme come cordone ombelicate virtuale — aggiunge la psicoterapeuta, che sull’argomento ha scritto un libro(Mamme Avatar, BUR) — e consente ai ragazzi di ottenere un’autonomia fittizia: chiamami quando arrivi, scrivimi come è andata la verifica ecc… Poi quando questo fitto meccanismo di comunicazione che consente di stare sempre in contatto viene spostato dalla famiglia al contesto di amici,e alla mamma non si risponde più con tanta assiduità, allora viene criticato, eppure è normale che un adolescente sano cerchi affetto e vicinanza dai propri coetanei».

La socializzazione in rete
È proprio attorno al cellulare che gira il mondo dei ragazzi: essendo quasi totalmente scomparsi i luoghi di aggregazione spontanea come giardini, piazzette, oratori, gli adolescenti di oggi si incontrano online. Spiega Turuani: «Questa generazione ha trovato nella Rete un nuovo modo per restare insieme autonomamente, senza la presenza e il permesso degli adulti. Non di rado si sente dire: “ci vediamo alla partitella”, che però non è quella al campo di calcio, ma è il videogioco in Rete. Nelle chat di classe c’è sempre qualcuno che fa le battute, qualcun altro che posta video, altri ancora che si fanno carico dell’angoscia e solitudine dei compagni. Quello che succedeva in piazza, ora succede online. Ma le paure e le fragilità sono le stesse delle generazioni passate, è cambiato solo il mezzo con cui comunicarle e per questo appaiono amplificate. A volte in rete avviene un vero e proprio allenamento alle competenze necessarie alle relazioni, che noi psicoterapeuti la chiamiamo “palestra sociale”: i ragazzi si esercitano online postando magari l’ultimo taglio di capelli, o un vestito nuovo per studiare la reazione virtuale prima di mostrarsi nella vita reale. Non a caso è quasi sempre visibile l’evoluzione dell’utilizzo dei social: i profili dei preadolescenti sono molto attivi, sono quelli che più rincorrono i “like”. I più grandi invece quando la personalità è più strutturata, sentono sempre meno il bisogno della rassicurazione online. Infine lo schermo protegge e può aiutare i più timidi».

Che cosa possono fare i genitori
In questo mondo eternamente connesso i genitori stanno a guardare? «Trincerarsi dietro ai “non so”, “non conosco”, “non capisco” — aggiunge la psicoterapeuta — ha creato nei ragazzi l’idea che quando si tratta di tecnologia gli adulti non sono un punto di riferimento. Tutto questo è pericoloso perché crea una sorta di autonomia illusoria, mentre noi adulti, per dirla come lo scrittore Marc Prensky, abbiamo il dovere di recuperare la “saggezza digitale”. Rifiutare a priori ciò che non conosciamo o che non è della nostra generazione banalizzandolo a una perdita di tempo, uccide la comunicazione con gli adolescenti perché sentono che il loro mondo è attaccato, svalutato e la rottura talvolta è irrecuperabile». La parola d’ordine per mamma e papà è “incuriosirsi”, cercare di capire che cosa fanno i propri figli online, entrare nell’ordine di idee che youtuber (giovani iscritti al canale Youtube su cui caricano video personali) e videogiochi (per quelli più diffusi sul mercato come Minecraft o League of Legends servono tra l’altro ottime competenze) sono nuove modalità di comunicazione. Ignorarlo significa dare loro indipendenza e autonomia nel gestire una grossa fetta della loro vita senza l’aiuto di un adulto, se dovessero verificarsi problemi. Come agire allora? «Dovremmo cominciare a ragionare su due piani — suggerisce Turuani —. A fine giornata, oltre che chiedere come è andata a scuola, potremmo aggiungere: che cosa hai fatto online? Qual è il video più bello che hai visto su Snapchat? È uscito un nuovo video del tuo youtuber preferito? Se faccio capire a mio figlio che sono interessato a quelle che sono nuove forme di comunicazione, potrò evitare un rischioso gap generazionale.