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Condividiamo l’editoriale di Matteo Lancini per La Stampa.

La morte volontaria di un adolescente o di un giovane adulto toglie sempre il fiato. Decidere di interrompere la propria esistenza quando davanti a sé ci sono così tante possibili esperienze da vivere e così tanto futuro annichilisce e lascia sgomenti, inibisce il pensiero, rende difficile qualsiasi commento. Se poi a morire volontariamente è una giovanissima atleta, rappresentata da tutti come talentuosa e ricca di prospettive future, la reazione di spaesamento è, se possibile, ancora più pervasiva. Mai pensieri suicidali possono abitare la mente di chiunque e il pensiero trasformarsi in azione.

Per i molti giovani che pensano al suicidio, il fattore precipitante, quello che si palesa davanti a sé come un ostacolo insormontabile, può essere rappresentato da una bocciatura, dalla fine di una relazione, da un qualsiasi altro avvenimento che induca a sperimentare sentimenti di delusione e vergogna, sensazioni di impresentabilità e impossibilità a proseguire, con la conseguente decisione di sparire per sempre. Il dolore è individuale e la vergogna può essere pervasiva per qualcosa che noi riteniamo normale, o addirittura banale, ma che per il nostro giovane interlocutore può rappresentare qualcosa di molto doloroso, devastante. Negli ultimi anni, i ragazzi esprimono la propria sofferenza prevalentemente attraverso l’attacco al corpo, come testimoniato dalla diffusione di anoressia, ritiro sociale, tagli e tentativi di suicidio.

Incidere il corpo, affamarlo e dimagrirlo, farlo sparire dalle scene sociali o per sempre, rappresentano le modalità attualmente più diffuse di comunicare una sofferenza, un dolore evolutivo che non riesce a trovare altri canali di espressione. Il suicidio è la manifestazione più drammatica di questa incomunicabilitá agita. Dunque, che cosa possiamo provare a fare? Anche se è difficile, il suicidio, non deve toglierci le parole. Alcuni adulti sostengono che parlare di suicidio con le giovani generazioni sia un’operazione rischiosa, un’istigazione, una sorta di suggerimento a pensare una soluzione, altrimenti non presente nella loro mente. Molti preferiscono non nominarlo, per timore che possa ispirare l’adolescente o il giovane adulto a compiere il gesto suicidario. In realtà, è esattamente il contrario. Parlare del suicidio abbassa il rischio. Bisogna sempre chiamare le cose con il proprio nome, anche se questo può risultare angosciante o doloroso, perché la paura di nominare qualcosa non fa altro che donargli ancora più potere e aumentare la paura stessa. Parlarne, però, non significa comunicare le nostre angosce, parlare di noi, di cosa ci suscita la notizia di un suicidio in età giovanile; significa, piuttosto, trovare il coraggio di fare le giuste domande e provare, altrettanto coraggiosamente, ad accettare le risposte del nostro giovane figlio o studente.

Sono consapevole che non si tratti di un’operazione emotivamente facile, ma è l’unica possibilità che abbiamo: mostrarci autenticamente disposti a sentire cosa hanno da dire, le loro eventuali risposte, senza farci prendere dal panico e farci schiacciare dalla nostra fragilità che non ci permette di accettare e di sentire che nostro figlio possa aver pensato alla propria morte, al suicidio. La sera a tavola, invece che chiedere di spegnere lo smartphone, bisognerebbe avere il coraggio di domandare esplicitamente ai nostri figli se abbiano mai pensato al suicidio, cosa provino e pensino di fronte alla morte volontaria di tanti coetanei, se si sentano in difficoltà e se anche loro abbiano pensato a questa possibile soluzione. Lo stesso vale per le istituzioni scolastiche del nostro Paese. La scuola degli adolescenti dovrebbe affrontare questa materia ogni giorno. Bisognerebbe avere il coraggio di parlare del suicidio, non come esito di una malattia mentale ma come possibile pensiero che abita la mente dell’essere umano. Ognuno dovrebbe poter trovare qualcuno con cui condividere le proprie angosce, perché prima di un gesto definitivo c’è quasi sempre un ultimo tentativo di comunicazione. Con questo, voglio essere chiaro, non intendo in alcun modo attribuire responsabilità ai genitori dei giovani che ogni giorno si tolgono la vita, dopotutto se i ragazzi non parlano c’è poco da fare. Ma quello che si potrebbe fare è provare a cambiare la società, il modo di educare le nuove generazioni. Smettere di addestrarli alla perfezione in ogni ambito, spiegare loro che dagli inciampi ci si può rialzare, che gli errori aiutano a crescere, che di morte e di suicidio si può, anzi si deve, parlare. Sforziamoci di creare le condizioni perché le emozioni, anche quelle più dolorose e disturbanti, possano essere espresse, comunicate agli adulti, trasformate in parole da dire e non soffocate, mutate in silenzi assordanti. Dobbiamo offrire ai nostri figli e ai nostri studenti occasioni per potere affrontare il discorso con i loro adulti di riferimento, affinché la tentazione della morte non si trasformi da idea a progetto, da progetto a gesto.