Condividiamo l’articolo di Antonio Piotti per Doppiozero.com.
All’inizio del nono libro della Repubblica Platone dopo aver descritto la tirannia come una possibile degenerazione della democrazia, si impegna a enucleare le caratteristiche dell’uomo tirannico: “anche qui cercheremo di determinare come l’uomo tirannico nasca, come derivi dall’uomo democratico, quali siano le caratteristiche della sua personalità, che tipo di vita conduca, in riferimento a felicità o infelicità” [571a].
A questo punto però, proprio all’inizio della disamina, Socrate si interrompe e pone una digressione: “ho l’impressione – dice – che non abbiamo approfondito abbastanza la questione dei desideri”. Platone sembra quindi ritenere che è impossibile capire l’uomo tirannico se non a partire da una riflessione sul meccanismo stesso del desiderio perché, vedremo, è proprio a partire da un discontrollo a questo livello, un livello che chiameremo dell’inconscio, che si instaura la dinamica della tirannia. È in questo punto della Repubblica che le intuizioni platoniche si avvicinano prepotentemente alle basi del pensiero psicoanalitico freudiano. Dice Platone: “Tra i desideri e i piaceri ve ne sono alcuni che mi sembrano insofferenti di ogni norma e disciplina, ribelli a ogni legge, e credo innati in ognuno di noi. Ora in alcuni individui questi desideri sono resi inoffensivi da vari fattori: l’azione coercitiva delle norme sociali che poi si traducono nelle leggi, la conseguente abitudine a indirizzare le pulsioni verso mete moralmente accettabili, l’acquisizione di una matura coscienza razionale: non così in altri individui nei quali queste pulsioni sembrano proliferare e si presentano con una violenza estrema” [571c].
E dove si manifestano questi desideri irrefrenabili? Essi compaiono nei sogni, nel luogo che la psicoanalisi ha istituito come proprio dell’inconscio. Durante il sonno “una parte dell’anima, quella razionale, dorme: ed ecco che la parte belluina e selvaggia balza su e […] cerca di liberarsi e di dare soddisfazione alle sue pulsioni: sai bene infatti che, in simili circostanze, oserebbe commettere qualsiasi delitto, come sciolta e staccata da ogni vergogna e da ogni saggezza e non avrebbe nessuna esitazione, nel suo torbido fantasticare, neppure a tentare di unirsi con la madre” [571d]. Nel sogno quindi compaiono insieme la violenza pantoclastica e l’incesto. Ora, l’uomo saggio controlla questi impulsi mentre il tiranno, figlio dell’uomo democratico, ne è sopraffatto. Infatti ciò che differenzia l’uomo tirannico da quello democratico è ciò che accade nella veglia: nel sonno, quando sogniamo, siamo tutti uguali, siamo tutti tiranni.
Ma proprio il riferimento all’incesto ci induce a qualche riflessione ulteriore: Platone cerca di delineare la struttura soggettiva che porta all’esercizio arbitrario del potere e lo fa facendo riferimento a una pratica incestuosa per eccellenza: il rapporto sessuale con la madre. Questa condizione curiosamente edipica era già comparsa in qualche modo in una parte precedente della Repubblica, quando, all’inizio del secondo libro, viene narrato il mito di Gige. Gige è un pastore che cura le pecore del re di Lidia. Improvvisamente, in seguito a un temporale, si apre sotto i suoi piedi una voragine, Gige penetra nel profondo della terra e trova il cadavere di un gigante che, al dito, indossa un anello, se ne impossessa e si accorge che questo stesso anello nasconde un potere straordinario: se il castone si volge verso chi lo indossa costui diviene invisibile. Forte di questo strumento, Gige penetra allora nelle stanze reali e, senza che nessuno se ne accorga, riesce ad arrivare fino alle stanze della regina, la seduce e, col suo aiuto, uccide il re. Il mito di Gige viene usato da Platone per descrivere l’onnipotenza del desiderio e la situazione nella quale l’individuo può commettere il male. Se noi avessimo, dice Platone, la possibilità di commettere il male senza che nessuno se ne accorga, nella certezza dell’impunità, siamo sicuri che ci comporteremmo diversamente da quanto fatto dal protagonista del mito? Saremmo capaci di mettere un freno al nostro desiderio? È tuttavia significativo che, ancora una volta, l’espressione massima dell’onnipotenza sia rappresentata dalla fantasia incestuosa: congiungersi con la madre e uccidere il padre.
È fine troppo facile vedere qui, nel cuore dell’uomo tirannico il culmine dell’onnipotenza infantile. Il tiranno dispotico ci appare come un uomo a cui è stato consentito, in un certo senso, di rimanere bambino. Un soggetto che ha mantenuto intatto nel contesto sociale adulto il suo desiderio pregenitale, che non ha saputo evolversi verso il principio di realtà e che agisce dominato esclusivamente dal principio del piacere incurante del male che produce o della violenza che esercita. In questo senso è forse comprensibile – e si direbbe molto attuale – anche la ragione per la quale la tirannia sembra avere, nel discorso platonico una stretta parentela con la democrazia. Non si tratta di un discorso che non ci riguardi: anche nei nostri sistemi democratici infatti l’individuo è portato a esercitare in modo strenuo la sua facoltà di desiderare, l’industria culturale suggerisce sempre nuovi oggetti da possedere e rende inesausto il meccanismo della soddisfazione narcisistica. In questo contesto accade quindi che a frenare l’onnipotenza del desiderio sia soltanto una costrizione esterna: la paura della legge o il divieto imposto dal potere. Viene sempre meno, tuttavia, un freno etico interno: l’individuo non ha strumenti soggettivi per resistere alla seduzione consumistica. Questo significa che, potenzialmente, qualsiasi soggetto potrebbe tornare ad essere tirannico nel senso di esercitare nuovamente un potere assoluto simile a quello che si illudeva di possedere da bambino se solo le circostanze glielo consentissero, se solo gli capitasse di trovare un anello di Gige da indossare. In altri termini, un potere consumistico portato agli eccessi costituisce la premessa psichica per la determinazione di una sorta di indifferenza etica che conduce alla nascita potenziale della personalità tirannica. E alla tirannide come sistema.
Occorre però qui precisare un punto essenziale. L’aspetto edipico del tiranno è solo secondario di contro al desiderio onirico di ritrovare qualcosa di originario perduto per sempre. Il mito di Gige mostra bene che il congiungimento edipico con la madre-regina compare solo alla fine quando il protagonista possiede già l’anello e lo usa a suo piacimento. Ciò che accade prima è letteralmente, una reinfetazione: Gige rientra nel corpo della madre-terra e, dopo avervi trovato un gigante pene-paterno-morto, si impossessa del suo potere. La fantasia tirannica non ha perciò direttamente a che fare con l’Edipo ma con l’onnipotenza fusionale del narcisismo primario, con l’idea di ritrovare un potere assoluto proprio nel ricongiungimento magico con il corpo materno originario. Di fronte a questa forma di delirio, l’Edipo appare solamente come una costruzione secondaria.
Il discorso del tiranno è quindi ben più arcaico del desiderio di possedere la propria madre perché immagina piuttosto il ripristino di uno stato fusionale perduto come unica vera fonte del potere. Il concetto di Umma così come viene descritto dal fondamentalismo islamico o quello di heimat – cui faceva riferimento il pensiero nazista, per esempio in Julius Evola, sono forse degli esempi adeguati di come la narrazione del ritorno impossibile all’unità perduta sia tipico del pensiero tirannico e del sistema della tirannia.
Ma se le cose stanno così, se ci troviamo di fronte a una sostanza narcisistica primaria, non possiamo fare a meno di vederne anche il lato osceno: poiché il ritorno all’origine è già da sempre perduto e velato da un’inguaribile nostalgia, questa stessa origine corre anche sempre il rischio di essere minacciata: i germi di un potere straniero possono invadere o cercare di invadere il corpo materno cui disperatamente si tende e lo possono irrimediabilmente distruggere. È in questo preciso momento che il delirio tirannico assume i tratti di una violenza pantoclastica assoluta.
La vicenda umana di Putin sembra esemplificare bene questo meccanismo: vissuto dapprima all’interno del sistema comunista come membro del KGB ha poi imparato a esercitare per conto di sé stesso il desiderio di onnipotenza accumulando ricchezza e potere, ma ha anche sempre sentito il pericoloso minaccioso che la sua terra, la grande madre Russia, fosse invasa e dilaniata da un potere estraneo, e nemico, l’Occidente liberale pronto a sedurre tutti gli ex paesi satelliti. Quando Putin brinda con Xi si coglie una leggera asimmetria dalla quale traluce bene che le due tirannie vivono momenti diversi: mentre l’una si sta imponendo in una sfida globale, l’altra è destinata al tramonto. Forse tutto questo è inevitabile: i tiranni non possono essere due, quando uno emerge l’altro deve decadere e passare al rango di servo, nell’attesa che il primo trionfi come unico vincitore in questa guerra contro l’Occidente.
Dobbiamo ancora chiederci se Putin accetterà questa dipendenza. Il tiranno russo non possiede l’anello di Gige per soddisfare i suoi desideri, ma possiede un’arma pantoclastica attraverso la quale può mostrare il lato osceno del desiderio: quello che si manifesta quando esso viene messo in discussione: l’arsenale nucleare. La scelta della distruzione totale conserva, come sappiamo un solo limite: l’evidenza che, per uccidere l’altro non si può far altro che decretare nello stesso luogo e nello stesso tempo, la morte di se stessi. Lo psicoanalista italiano Franco Fornari vedeva in questo aspetto della guerra nucleare la possibilità che, nella minaccia della morte di ognuno, l’idea stessa della guerra potesse essere abbandonata. È quello che speriamo anche noi, pur sapendo però che l’animo tirannico quando si sente minacciato, non esclude la possibilità di una morte universale pur di vendicare l’offesa legata all’usurpazione dell’origine.