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Condividiamo l’intervista di Laila Bonazzi ad Antonio Piotti per Marie Claire sulle manifestazioni autolesive della sofferenza e sul tentativo di suicidio in adolescenza.

Come si arriva a desiderare di non vivere più quando si è così giovani? È una domanda che pongono in tanti al dottor Antonio Piotti, psicoterapeuta e docente di prevenzione e trattamento delle condotte autolesive e del tentato suicidio in adolescenza presso l’alta scuola del Minotauro di Milano. Nella sua carriera ha ascoltato centinaia di ragazzi e ragazze che si sono trovati sull’orlo di questo baratro, dentro il quale lui stesso ha dovuto guardare, accanto a loro, per capire questo dolore così profondo e così inspiegabile per il resto del mondo. Non c’è una risposta semplice, anzi, non esistono mai risposte semplici ed è sbagliato cercarle: “Dare la colpa di volta in volta alla pandemia, alla didattica a distanza, ai social media, è un modo veloce per trovare un capro espiatorio senza fare la fatica di approfondire”, spiega, “la pandemia ha illuminato un disagio che era già presente”. In particolare, Piotti e alcuni suoi colleghi riflettono sulla loro sensazione che stiano aumentando le richieste d’aiuto da parte delle ragazze, anche se nelle statistiche ufficiali il tasso di suicidio rimane circa quattro volte più alto nei ragazzi rispetto alle ragazze.

Qual è il panorama che vede oggi? Come stanno gli/le adolescenti?
In generale è vero, come è stato affermato da molti, che la situazione si sta aggravando, da diversi punti di vista, inclusi i sintomi. Eravamo abituati a pensare alla crisi adolescenziale come a una crisi derivata dallo scontro tra aspettative e realtà, tra i desideri che si infrangono contro quello che la vita propone. Oggi vediamo una forma di sofferenza diversa, che deriva da una mancanza di speranza, una forma di disperazione più profonda di quella che eravamo abituati a vedere. Si sono aggiunte al panorama forme di rinuncia alla vita, un forte aumento di ansia prestazionale, una sensazione di incapacità di fare le cose. Questo porta i giovani al ritiro dalla vita, a esercitare aggressività e violenza contro se stessi o verso l’esterno.

L’adolescenza è sempre stato un periodo di crisi: è cambiato qualcosa rispetto al passato?
Certamente si tratta di un periodo critico da sempre. In passato la criticità consisteva nel conflitto contro la regola, con il genitore o le istituzioni. Ora questo tipo di crisi si verifica meno, mentre vediamo appunto una crisi più narcisistica. Da quando è apparsa la pandemia si è aggiunto un senso di mancanza di punti di riferimento, una disperazione che impedisce persino di costruire quelle speranze che poi si dovrebbero infrangere.

Questo cambiamento della crisi dell’adolescenza quando è iniziato?
Uno degli elementi fondamentali penso possa essere individuato in un certo modello di pensiero narcisistico che si basa sulla prestazione, proiettato dai genitori verso i figli. Non c’è nulla di male nel volere che i propri figli raggiungano dei risultati, facciano cose belle e importanti, a scuola e non solo. Il problema sorge quando questo interesse per la prestazione e l’efficienza sostituisce i legami affettivi o li pone in secondo piano. I ragazzi di oggi si ritrovano ad avere legami affettivi fluidi e sporadici, non sono ingaggiati in relazioni forti che aggiungono valore, con la famiglia, con le persone, con le idee, i progetti, i movimenti culturali. Questa mentalità prestazionale di ricerca di successo di per sé non è sbagliata, ripeto, ma quando viene portata all’estremo lascia il soggetto da solo. E questa solitudine crea forte disagio all’arrivo di una crisi, che sia la pandemia o un momento difficile da affrontare. È importante ribadire che non sto parlando di tutti i ragazzi e ragazze, ma solo di chi ha qualche fragilità. La maggioranza, per fortuna, sta bene.

È un bene o un male che tutti si siano messi a parlare di disagio e malessere giovanile?
Penso sia un bene che se ne parli e ci sia dibattito. Sopratutto sui temi dell’autolesionismo e del suicidio c’è reticenza a farlo, una prudenza enorme. Anche giustificata, perché bisogna sapere come parlarne. Questo però fa sì che i ragazzi sul tema del voler morire, dell’essere disperati, si sentano soli e non trovino interlocutori a cui confidare le proprie angosce. Per una sorta di prudenza estrema, alla fine si è lasciato un vuoto su questi temi. Bisognerebbe parlare di morte e di morte volontaria con gli adolescenti. Se lo facciamo nel modo giusto non aumentiamo i suicidi, come qualcuno teme, ma li diminuiamo. Anche quando vado nelle scuole superiori c’è resistenza da parte di alcuni docenti. Ma così finisce che i ragazzi cercano le risposte altrove, in rete innanzitutto. Con tutti i rischi che ne conseguono.

Qual è il modo migliore di parlarne di condotte autolesioniste, violente o della ricerca di morte volontaria?
Non bisogna essere sensazionalisti, non esaltare o descrivere il gesto suicida in modo romantico ovvero suscitare l’effetto Werther con comportamenti emulativi. Il riferimento è al romanzo di Goethe “I dolori del giovane Werther”, che pare avesse causato delle morti per emulazione. Non bisogna descriverlo come una buona scelta, una scelta eroica. E bisogna sempre sottolineare che ci sono dei punti di riferimento, dei luoghi dove chiedere aiuto.

Perché ha espresso di recente una maggiore preoccupazione nei confronti delle ragazze?
È una considerazione che all’inizio tenevo per me. Poi mi sono confrontato con alcuni colleghi e ho scoperto di non essere il solo ad aver notato una certa tendenza. Di recente il collega Massimo Ammaniti ha anche scritto un articolo su La Repubblica citando alcuni dati raccolti negli Stati Uniti, che dimostrano un aumento dei suicidi di ragazze durante la seconda e terza ondata del Covid. Noi non abbiamo statistiche nuove. Quello che sappiamo da sempre è che a morire di suicidio sono soprattutto i maschi, in un rapporto di circa 4 a 1 con le ragazze, che di solito utilizzano mezzi meno letali e quindi sopravvivono. In molti stiamo notando tentativi di suicidio gravi messi in atto dalle ragazze. Mi rendo conto che i generi ormai sono fluidi ed è difficile distinguere, ma ho la sensazione che la componente femminile in adolescenza viva un maggiore intimismo, una maggiore riflessione su se stesse e quindi abbia maggiore bisogno di confronto con i coetanei rispetto ai ragazzi. Le ragazze, diciamo, sono più interiorizzanti, soprattutto nella fase dai 13 ai 16 anni, i ragazzi più esteriorizzanti, meno propensi all’introspezione, alla ricerca di contatto. Penso, quindi, che il distanziamento sia stato in generale più doloroso per le ragazze. Recentemente ascoltavo una paziente che raccontava di voler morire. Affermava di aver perso due anni di vita e di sentire di non avere gli strumenti per stare insieme agli altri. Lei li ha di sicuro, ma pensa di non averli. La pandemia ha illuminato e fatto diventare assoluto quel senso di inadeguatezza, cancellando l’idea che sia un momento superabile.

Perché si arriva a desiderare di porre fine alla propria vita a quella età?
Si prova una sensazione di forte angoscia, che è intollerabile e che viene vissuta come infinita, come se non ci fosse la possibilità di cambiare. Ci si sente di essere come nati per sbaglio, di aver un corpo e una mente che non sono pronti ad affrontare la vita. I ragazzi e le ragazze che arrivano a pensare alla morte volontaria credono che saranno sempre delusi. Come una squadra di calcio che non entra neanche in campo. Non si presenta nemmeno, perché ha la sensazione che perderà. Oltre a provare una sensazione terribile di vergogna, l’imbarazzo di essere esibiti di fronte agli altri nella propria nullità. La paura di essere smascherati, la paura che tutti vedano i tuoi fallimenti. Questo si lega molto, ovviamente, alla ricerca di riconoscimento propria del mondo dei social media e della rete.

Qual è l’atteggiamento giusto da tenere in questi casi?
Posso dire con certezza quale sia quello sbagliato. Non sottovalutare mai queste situazioni. Non dire mai frasi come “è una cosa da ragazzi, poi passa, non è niente, vuole attirare l’attenzione”. Men che meno facendo paragoni del tipo “stiamo tutti male in questo periodo”. Di natura siamo portati a sottovalutare le minacce di suicidio, abbiamo il cosiddetto bias dell’ottimismo, cioè la tendenza a pensare che le cose brutte alla fine non accadano. Non è assolutamente vera la frase “chi vuole morire non lo dice”. Lo dice sempre. Serve un atteggiamento di ascolto intelligente, bisogna cercare identificarsi con il dolore che stanno esprimendo. E se la situazione è grave, chiamare aiuto.

C’è un problema di mancanza di servizi sul territorio?
Sicuramente ci sono pochi servizi, ma il problema maggiore è che parlano poco tra di loro.
Le persone spesso non sanno le risorse che il territorio offre. Gli insegnanti della scuola dovrebbero essere a conoscenza dei numeri di telefono per le crisi acute dei ragazzi o saperli indirizzare se ricevono una confidenza. Servirebbe maggiore informazione sulla questione in generale. In altri Paesi si fa pubblicità ai servizi nei luoghi dove si radunano i ragazzi, anche online quindi. Sicuramente, poi, la pandemia ha ampliato la richiesta. Strutture che se la cavavano a gestire i pazienti ora fanno fatica. Nel caso degli adolescenti che tentano il suicidio, inoltre, la situazione è particolarmente drammatica. Mentre esistono luoghi deputati alla cura e al ricovero per adolescenti con disturbo del comportamento alimentare, mancano strutture apposite per chi cerca la morte volontaria, così come per chi mette in atto il cosiddetto ritiro sociale. Alla fine vengono ricoverati in psichiatria, che non è un luogo adatto.

Cosa le ha insegnato lavorare a stretto contatto con giovani che arrivavano a non desiderare più di vivere?
Mi ha insegnato a lavorare in una maniera diversa. Normalmente con lo psicologo si fissano appuntamenti. In questo caso serve mantenere un legame costante e flessibile con i propri pazienti, via WhatsApp, con telefonate. Mi ha insegnato a lavorare in sinergia con i colleghi, a coinvolgere le famiglia e il sistema scolastico. Dal punto di vista affettivo, invece, ho capito l’ importanza della relazioni ai fini di riscrivere la speranza. È essenziale, saper aprire sempre uno spiraglio, continuare a sperare.

C‘è una storia che ha segnato la sua carriera?
Più di una. Da quando sono arrivato al Minotauro, ormai vent’anni fa, ho incontrato centinaia di ragazzi che volevano morire, ho parlato con loro. Due vicende mi sono rimaste profondamente nelle mente, delle pazienti che sono state delle maestre e hanno dato una svolta al mio modo di lavorare. Mi hanno spiegato quali fossero i loro pensieri, come ci si doveva muovere nelle vie della disperazione: sono riuscite a trasmettermi chiaramente quella sensazione che loro avevano di essere davanti a un vicolo cieco. La loro forza di comunicare quella disperazione era anche l’inizio di una fuoriuscita. Ho guardato il baratro insieme a loro. Nietzsche dice che non bisogna guardare nell’abisso, perché prima o poi l’abisso guarderà dentro di te. Sicuramente devi guardarlo con qualcuno a fianco, altrimenti ti perdi. Dovevo avere il coraggio di stare lì sul baratro e guardare insieme a loro. E questo ha cambiato tutto. Un’altra storia importante l’ho raccontata insieme alla collega Roberta Invernizzi nel libro “Riscrivere la speranza”: una giovane ragazza si gettò dal quarto piano e sopravvisse, l’abbiamo seguita e ne abbiamo poi raccontato il percorso di rinascita.

 

Fonte: Marieclaire.it