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Condividiamo l’articolo di Martina Coscetta per l’Huffington Post sul nuovo libro di Matteo Lancini “L’età tradita”.

“Noi adulti non siamo stati in grado di assumerci le responsabilità necessarie a garantire a voi giovani un presente stabile e un futuro non troppo fosco. Una grande crisi di valori ci ha portato a privilegiare il profitto, l’individualismo, l’audience”. Questa la premessa da cui parte “L’età tradita. Oltre i luoghi comuni sugli adolescenti” (Raffaello Cortina Editore), il libro di Matteo Lancini, psicologo, psicoterapeuta e docente presso il dipartimento di Psicologia dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca e presso la facoltà di Scienze della Formazione dell’Università Cattolica di Milano.

Nel libro l’autore si propone di abbattere alcuni clichés sugli adolescenti, ancora oggi troppo diffusi tra gli adulti, fondati su visioni costruite in base al senso comune, in alcuni casi “decisamente più adatte a descrivere il mondo psichico e affettivo di giovani appartenenti a generazioni precedenti”. L’obiettivo del volume? Riuscire a capire di quale funzione adulta, autorevole, e non stereotipata, le ragazze e i ragazzi nati nel nuovo millennio “abbiano disperatamente bisogno”.

Un primo esempio, banale, degli stereotipi che caratterizzano il pensiero adulto nei confronti dei giovani risale agli albori della pandemia. L’autore ricorda che nel weekend a cavallo tra il 7 e l’8 marzo 2020, un sabato pomeriggio, la Biblioteca degli Alberi, un grande parco milanese, era stracolma di persone di ogni età che desideravano godersi un anticipo della primavera ormai alle porte. Una popolazione composta anche da molti genitori e nonni, ma “solo i giovani furono accusati di aver trascorso quel sabato e quella domenica a ‘divertirsi’, senza pensare al rischio legato al virus”. “Trasgressivi, individualisti, gli adolescenti italiani sembravano aggirarsi felici tra bar e locali di perdizione – scrive Lancini – nel chiaro tentativo di portare il virus a casa e far ammalare il numero più alto possibile di genitori e nonni”.

Il culmine, sempre durante la pandemia, è stato raggiunto quando gli insegnanti e gli educatori scolastici hanno iniziato a considerare assenti, e di conseguenza non ammettere all’esame di maturità o bocciare, gli adolescenti, costretti a usufruire di un’esperienza scolastica “insolita”, per non dire altro. “Molti ragazzi e ragazze non avevano la possibilità di connettersi a Internet, altri per vergogna e senso di inadeguatezza non si sono più collegati, e così abbiamo assistito alla fuoriuscita di tantissimi adolescenti dal percorso formativo scolastico”. Anche se i giovani avevano accumulato tanti crediti da riscuotere, e non debiti da recuperare.

Il problema più grave, secondo l’autore, è che quando si ha a che fare con le giovani generazioni si verifica sempre una situazione paradossale, per cui i bambini vengono adultizzati e gli adolescenti infantilizzati. Il bambino odierno, infatti, vive una “anticipazione delle esperienze”: è immerso in un percorso di crescita che incentiva solamente la realizzazione di sé e i tratti della personalità più narcisistici. Al tempo stesso, l’adolescente viene infantilizzato. “Si chiede ai bambini di crescere secondo dettami adulti per poi guardare con sospetto agli adolescenti che hanno puntualmente aderito alle proposte provenienti da mamma, papà, scuola e universo massmediatico. Ecco allora che, improvvisamente, proprio quando l’adolescenza richiederebbe sostegno in direzione della realizzazione di sé, prevalgono proposte educative infantilizzanti”. Regole, limiti, paletti, no che aiutano a crescere, bocciatura, rispetto degli altri.

Negli ultimi decenni, numerosi studi neurofisiologici e neuroscientifici hanno dimostrato che le trasformazioni adolescenziali dipendono in modo significativo dai cambiamenti cerebrali. Troppo spesso gli adolescenti vengono dipinti come soggetti “strutturalmente disinibiti”, incapaci di porre freno alle proprie azioni, “governati come sono dall’insaziabile fame di dopamina che li spingerebbe a divorare Internet, o sostanze alcoliche e psicotrope, fino allo sfinimento”. Eppure non è solo questione di cervello e impulsi. “Il problema è che questi studi non possono essere presi a modello interpretativo univoco e totalitario, a spiegazione dell’agire individuale. Bisogna considerare una molteplicità di variabili, le quali devono essere indagate a partire dalla storia personale passata del soggetto e da ciò che sta vivendo”. L’agito adolescenziale, infatti, rappresenta la manifestazione di un conflitto evolutivo che non si riesce a comunicare e per questo diventa un’azione, un comportamento. Che nome e che senso ha il dolore? Per quale motivo non si riesce a trasformarlo in parole? Queste sono le domande da porsi. Ma no, è più facile attribuire la causa di tutto ciò alla pandemia o all’immaturità cerebrale, l’importante è che la difficoltà, o la sofferenza, individuale e generazionale non ci chieda di soffermarci sulle nostre responsabilità, sui modelli di identificazione che abbiamo quotidianamente proposto negli ultimi anni.

Un altro esempio è l’utilizzo notturno che molti giovani fanno di Internet. “È pericoloso – spiega l’autore – ridurre la sofferenza narcisistica sperimentata in modo diffuso dalle nuove generazioni all’eccessivo utilizzo di smartphone e veglie notturne. Le difficoltà di addormentamento possono dipendere da molteplici fattori affettivi e psicologici – tra cui la paura della perdita del controllo, ansie separative, timori per i pensieri notturni dominanti – e il ricorso a Internet è spesso la modalità odierna per difendersi da queste esperienze dolorose o angoscianti”.

Per non parlare del clichés sull’adolescenza che riguarda l’onnipotenza. Si tende a inquadrare la ribellione e la trasgressione come tratti distintivi della fase evolutiva adolescenziale, ma occorre ricordare che oggi la spinta trasgressiva è stata sostituita dalla delusione. Prevalgono vergogna, senso d’inadeguatezza e delusione per ciò che si è diventati, rispetto alle aspettative proprie, genitoriali e di una società sempre più performante. “L’esperienza clinica dimostra che l’adolescenza è l’età in cui termina l’onnipotenza e si è costretti a fare i conti con i propri limiti. Si capisce che si è destinati a morire, che il proprio corpo ha il destino segnato. L’adolescente scopre di essere mortale, altro che onnipotente. Mentre l’infanzia è prevalentemente abitata dalla paura della morte dei propri genitori, l’adolescenza costringe a fare i conti con l’elaborazione della paura legata alla propria morte”.

“Da genitori occorre essere pronti a sentire quello che i nostri figli intendono davvero comunicarci o vorrebbero provare a dire, permettendo sempre loro di esprimere fatiche e sofferenze”. L’inciampo e il fallimento sono parte costituente della vita. “Da educatori, dovremmo capire che le scuole dovrebbero diventare il luogo elettivo di un ristoro post-pandemico anche digitale, baluardo dell’uguaglianza, consentendo anche a chi non ne ha la possibilità di usufruire di Internet e di un ambiente dove poter studiare e apprendere in senso ampio. Le istituzioni politiche, infine, dovrebbero rivolgersi ai giovani puntando sulla loro adultizzazione e responsabilizzazione, attribuendo loro ruoli e mansioni reali, e non di facciata”. La soluzione definitiva, dunque, resta responsabilizzare i giovani, invece che accusarli di essere diventati irresponsabili.