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Riportiamo l’articolo di Giusy Fasano pubblicato sul Corriere della Sera con l’intervista a Matteo Lancini sui recenti episodi di bullismo e sulle strategie più efficaci per affrontare il fenomeno.

Slogan che durano una stagione, volantini nelle bacheche delle scuole, pubblicità progresso, ore e ore di lezioni per centinaia di studenti alla volta. Tutto più o meno inutile, a giudicare dai risultati. Perché — e non servivano i molti casi di questi giorni per capirlo — le campagne contro il bullismo non funzionano. E allora la domanda è: c’è qualcosa che invece funziona? Esiste un modo per formare gli anticorpi contro il virus del bullismo? La risposta sta in una sola parola: partecipazione. Il trucco, se così si può chiamarlo, è il coinvolgimento diretto dei ragazzi: nel processo stesso della comunicazione anti-bulli, nel percorso di punizione per capire cosa si prova quando si è vittime, nel racconto di chi è stato bullizzato o nella creazione di oggetti che aiutino a non dimenticare il tema. Insomma, non importa con quale modalità, l’importante è che nella partita antibullismo gli adolescenti siano in qualche modo sempre in campo.

Le strategie

Le testimonianze delle vittime, per esempio, «sono una grande spinta e possono essere davvero utili» spiega Matteo Lancini, presidente della Fondazione Minotauro che dal 1984 si occupa di prevenzione e presa in carico di adolescenti. «È bene però — aggiunge Lancini — che al fianco di una vittima adolescente che racconta la propria esperienza ad altri adolescenti ci siano dei professionisti a occuparsi dei grandi problemi dei figli del nostro tempo: la ricerca del successo a tutti i costi, quel non tollerare le delusioni, la fragilità e la fallibilità. E poi attenzione: alcuni studi ci dicono che la visibilità di avvenimenti troppo drammatici rischia di allontanare chi ascolta, perché sente quel fatto troppo lontano e crede che a lui non succederà».

Le «punizioni»

Più delle testimonianze, è convinto Lancini, funzionano «le famose punizioni socialmente utili che la scuola si è dovuta inventare vent’anni fa. Sono utili due volte. Anzitutto perché sono aggiuntive e non privative. Cioè non sei sospeso punto e basta. Il principio è: hai sbagliato e fai quello che devi fare a scuola più quello che viene stabilito come punizione, in un piano educativo che i genitori ovviamente sottoscrivono. Ma è utile anche perché ti ritrovi ad aiutare chi è in situazioni di fragilità, magari proprio i ragazzi con qualche deficit che deridevi fino al giorno prima. Diventa una testimonianza di vita, costringe chi la subisce a essere soggetto attivo». Le punizioni extra scolastiche funzionano ma non si può dire che siano campagne contro il bullismo, anche se in un certo senso lo sono per il gruppo, per la classe o per la scuola di cui fanno parte i puniti: il loro caso, in sostanza, diventa esempio per gli altri.

Le campagne

Sull’efficacia delle punizioni socialmente utili è d’accordo anche Ivano Zoppi che con la sua Pepita Onlus raggiunge quarantamila ragazzi ogni anno nelle scuole, negli oratori, nelle associazioni sportive. «Le campagne che funzionano davvero contro il bullismo sono quelle costruite dal basso, con i ragazzi che sono e che si sentono protagonisti. E con protagonisti intendo che siano proprio loro a crearle». È il caso della matita e della gomma inventate dai ragazzini di una scuola media. «Sono stati loro — spiega Zoppi — a creare lo slogan “scripta volant, social manent” parlando dei rischi che si corrono con la diffusione di fotografie private in Rete. E sono stati loro a ideare matita e gomma con quello slogan stampato sopra. Perché la gomma cancella la matita, la Rete non cancella mai niente». Zoppi è sicuro che «i messaggi calati dall’alto, gli spot televisivi studiati da adulti e le lezioni una tantum di esperti siano spesso fini a se stessi». Non lo è stato certo il coinvolgimento che Pepita ha chiesto a dieci ragazzine di terza media che facevano sexting: «Con loro abbiamo ragionato su identità, intimità, rispetto del corpo e sa cosa siamo riusciti a fare? Ne abbiamo fatto delle testimonial per le bambine di seconda media».

Il ruolo del gruppo

Ancora una volta, quindi, la parola chiave è partecipazione. La stessa sulla quale punta l’Osservatorio nazionale per l’adolescenza di Maura Manca. «Se parliamo di bullismo spesso ci focalizziamo sulla vittima e sul bullo» premette lei. «Noi andiamo oltre il coinvolgimento delle due parti: puntiamo sul gruppo, sulla classe intera. Abbiamo persone qualificate che nelle scuole riescono a lavorare con piccoli gruppi alla volta e a far partecipare gli studenti nell’identificazione del problema. Facciamo fare dei lavori: video, canzoni, ricerche di immagini o altre cose del genere. Sviluppano la capacità di fare gruppo, e sa che le dico? Che poi in quelle classi non capitano più episodi di bullismo perché è il gruppo che si ribella, se il bullo ricompare». Merito degli anticorpi.