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Riportiamo l’intervista di Emilio Cozzi a Matteo Lancini, pubblicata su Wired.it, sui fenomeni digitali e sulle caratteristiche della generazione attuale di adolescenti.

 

Sexting, cyberbullismo, overdose videoludiche, gioco d’azzardo, isolati sociali sulla scia degli hikikomori giapponesi: quanto, i nostri tempi digitali, hanno influito e influiscono sulle modalità di comportamento e di relazione. Quanto, detto altrimenti, gli strumenti con cui dovremmo modificare la realtà hanno invece modificato noi? E, nel caso, siamo sicuri ci abbiano peggiorati?

Alla questione, soprattutto circoscritta all’età adolescenziale, si dedicano Matteo Lancini e la Fondazione Minotauro da lui presieduta, un istituto di oltre 50 psicologi che da trent’anni svolge attività di ricerca, formazione e consultazione psicoterapeutica.

Anche presidente dell’AGIPPsA, l’Associazione gruppi italiani di psicoterapia psicoanalitica dell’adolescenza, e docente presso il dipartimento di Psicologia dell’Università Milano-Bicocca, Lancini sarà ospite domenica 26 maggio al Wired Next Fest, dove parlerà del suo libro più recente, Il ritiro sociale negli adolescenti, uno studio a più voci dedicato ai criteri per distinguere un uso adattivo dei social e dei videogiochi da un sintomo di malessere o dipendenza.

Gli abbiamo anticipato qualche domanda.

Le trasformazioni tecnologiche hanno conseguenze sociali e psicologiche profonde, conseguenze perlopiù nefaste: verità o, giusto per rimanere in tema, fake news?

“Faccio una premessa doverosa: i nostri studi si concentrano su cosa sia cambiato nella mente delle nuove generazioni e prendono in considerazione i modelli educativi, il modo di intendere l’adolescenza o la preadolescenza. Non ci occupiamo, per esempio, di come si sia trasformata l’informazione.

“Circoscrivendo quindi il discorso al mio ambito, penso che tematiche oggi interpretate come novità dell’era digitale in realtà siano sempre esistite – si pensi proprio alle fake news.

“La comunicazione, fatta di rappresentazioni e vissuti, va oltre e per certi versi prescinde dal dato oggettivo. Certo, esiste la materia, ma la nostra vita è fatta di miti affettivi, rappresentazioni ed esperienze individuali intime. E questo non è minimamente cambiato negli anni. Basti pensare a come, sebbene a Milano i reati stiano diminuendo, la paura rimanga identica a quando i tempi erano ben più violenti.

“Per farla breve, addossare a internet colpe originali è un approccio limitato. È poi indubbio che nella mente degli adolescenti, e ho il sospetto valga anche per gli adulti, due invenzioni abbiano avuto conseguenze significative”.

Quali?

“La prima è che, attraverso internet, ovunque ci si trovi si dispone di una finestra connessa con miliardi di persone: è un ambito di esperienze senza precedenti. Significa che anche in condizioni di solitudine, come mai prima d’ora il corpo ha una possibilità di contatto e accesso a mondi informativi, a modalità di saturare o lenire il dolore e a esperienze di una varietà smisurata. È evidente questo produca cambiamenti. Detto altrimenti, mentre anni fa ci si poteva ritrovare a piangere per un amore finito male chiusi nella propria stanza con un libro, oggi quei libri, anche in senso figurato, sono migliaia, milioni. E tutti diversi”.

L’altra novità?

“È il fatto che le nuove generazioni crescano consapevoli di poter avere figli senza “quell’inciampo terribile”, sono ironico beninteso, di dover unire i corpi”.

Che cosa intende?

“Che la relazione di scambio, prima legata in maniera specifica al desiderio ma anche alla necessità di sopravvivenza della specie, oggi ha perso il secondo aspetto.

“Queste due invenzioni della nostra era pongono questioni inedite nelle modalità di rapporto, potremmo dire, fra “il soggetto e l’altro” e rendono centrale quanto ci si basti da sé, o quanto basti l’altro”.

Insiste nel parlare di corpo e di relazione con il corpo: perché è così importante? Ed è un rapporto cambiato negli anni?

“Per la psicanalisi, ma mi verrebbe da dire per gli esseri umani in generale, il corpo è un aspetto di sé. La pelle, in fondo, è il confine fra il mondo interno e quello esterno, e di certo la corporeità, quella che in gergo si chiama la mentalizzazione del corpo, è un compito centrale in adolescenza, tanto che il passaggio attraverso la pubertà è stato sempre celebrato da riti iniziatici. Non è solo un passaggio affettivo, relazionale e cognitivo, è un cambiamento biologico che trasforma un bambino in un essere generativo. Nella storia della psicanalisi, integrare il corpo – una dinamica che può sfociare anche nell’attacco, per esempio con atteggiamenti autolesivi – è un argomento di interesse cruciale; la psicanalisi stessa è nata attorno al tema del corpo sessuale non integrato. La famosa isteria, per esempio, quella cui Sigmund Freud dedicò tanti dei suoi studi, parte dalla rimozione delle pulsioni che si riconvertono in un sintomo, dallo svenimento alla malattia. In questo modello, il corpo diventa sede ed espressione di ciò che la mente non elabora”.

D’accordo, ma oggi?

“Oggi viviamo un’epoca in cui il corpo può essere superato, potenziato, nelle sue disparate versioni digitali può essere facilmente portato oltre i suoi limiti naturali – si pensi agli avatar online, o a quelli in un videogioco. È quindi fondamentale interrogarsi sul suo nuovo “ruolo”: la modernità l’ha tolto di mezzo, oppure, come tendiamo a credere, il corpo ricompare sotto altre forme generando una sorta di mondo di ipercorpi, in cui i corrispettivi reali sono in casa ma la loro simbolizzazione vaga dappertutto? Studiare questa relazione intrapsichica e relazionale inedita è centrale.

“Abbiamo per esempio notato che oggi, contrariamente agli adolescenti del passato per cui le problematiche riguardavano perlopiù l’accettazione di un nuovo corpo sessuale, il corpo è diventato estetico. Non è un caso che Fortnite fatturi milioni di dollari ogni mese vendendo skin, cioè orpelli con cui abbellire i propri personaggi senza modificarne le prestazioni in game. Oggi, più di altro, sembra contare la rappresentazione di un corpo bellonel senso di visibile e ammirato, il che riporta a una tematica anche più estesa che riguarda ognuno di noi: la rappresentazione del nostro sé, la percezione dei limiti e di una supposta onnipotenza, un nodo etico complesso.

“Mi spiego: qualche settimana fa ha fatto scalpore il caso di Cecile Elegge, una donna del Nebraska che, a 61 anni e in menopausa da 10, ha ricevuto gli ovuli della figlia fecondati con il seme del fratello, quindi impiantati nel suo utero. Il tutto per permettere al figlio omosessuale e al suo compagno di avere una bambina. Quando è nata la psicanalisi un fatto del genere sarebbe stato semplicemente impossibile; viviamo cambiamenti che senza dubbio pongono questioni nuove a chi ne studi l’evoluzione e le ricadute in termini psicologici”.

Intende cambiamenti pericolosi, o semplicemente da interpretare con strumenti a loro volta rinnovati?

“Prevedere le conseguenze di trasformazioni così vaste, almeno per me, è impossibile. Dipende dalla visione del mondo che si ha, o per dirla in termini psicanalitici, dall’inconscio che guida l’interpretazione della realtà: un inconscio distruttivo, o pulsionale, per esempio, può essere spaventato di fronte a novità di questa portata e tendere a limitarle. Di mio sono convinto che l’inconscio umano si orienti comunque e sempre a dare significato alle cose, che ci spinga ad adattarci. Ho, forse esageratamente, una visione quasi salvifica delle trasformazioni: sono convinto le nuove generazioni dimostrino sempre la capacità di armonizzarsi all’evoluzione.

“Faccio un esempio nel campo dell’apprendimento: oggi, confermano gli esperti, il numero e il tipo di stimolazioni cui i ragazzi sono sottoposti porta a far funzionare aree del cervello diverse da quelle usate da chi li ha preceduti, facendo perdere alcune funzioni considerate importanti. Ma è un dramma, oppure un adattamento a quello che servirà davvero nel futuro mondo del lavoro? Sono più propenso a credere alla seconda ipotesi. Poi va da sé che ogni trasformazione sociale profonda richieda una revisione dei modelli educativi, dei codici deontologici e delle leggi”.

È vero che le nuove generazioni percepiscono meno la separazione fra mondo digitale e realtà?

“La verità è che la domanda, se rivolta a un adolescente, è forzata: chi è nato negli ultimi vent’anni è cresciuto interagendo con i supporti e i mezzi del suo tempo. Vive necessariamente l’intreccio di reale e digitale, ma sa percepirne le differenze qualitative. Siamo più noi, nati in un’altra epoca, a doverci abituare ai paradigmi nuovi.

“Solo dieci anni fa si era convinti che i frequentatori più assidui delle chat fossero timidi. Abbiamo constatato che è vero il contrario: nell’ambito di uno studio svolto nel 2009 per il libro Sempre in contatto, scoprimmo che erano i ragazzi più estroversi a utilizzare maggiormente la messaggistica digitale. È un dato che oggi non va nemmeno più evidenziato tanto è ovvio; adesso sono i genitori a segnalarci come indice di disagio il fatto che i figli siano esclusi dalle chat scolastiche o dal gruppo WhatsApp degli amici.

“La riflessione può essere estesa anche se torniamo a riflettere sul corpo: se è vero che virtuale e realtà si compenetrano sempre di più, l’idea che il corpo conti ancora, che le interazioni dirette, fatte di sguardi e contatti fisici, siano qualitativamente diverse, è cosa che i cosiddetti “nativi digitali” sanno molto bene. Altrettanto bene sanno quanto tutto dipenda dai contenuti dell’esperienza, non dall’esperienza in sé, che non è profonda o superficiale a seconda del supporto: un rapporto amoroso autentico è costituito da una tale molteplicità di aspetti che nessun adolescente si sognerebbe di considerarlo simile a una relazione online. Vale lo stesso per un’uscita con gli amici. C’è poi una quantità di contenuti che trova un’espressione soddisfacente anche in un ambiente digitale, si pensi a una chiacchierata, a una chat: in fondo non ci sono grosse differenze rispetto a una lettera scritta nel secolo scorso”.

In questo contesto i videogiochi fanno male?

“Per lavoro cerchiamo di capire il significato simbolico ed evolutivo dell’azione. È chiaro che non è l’oggetto in sé a fare la differenza, ma la funzione che svolge nel percorso di crescita di un soggetto e in un determinato momento. Chiedersi se i videogiochi facciano male è impostare la questione in maniera parziale; occorre domandarsi quale significato hanno  i comportamenti. Per qualcuno videogiocare, e anche molto, può essere sperimentazione di sé, può appartenere a un processo di crescita, di sviluppo o addirittura essere la prefigurazione di una carriera. Per altri può indicare un disagio. Conta sempre il come, non il cosa”.