«Fatichiamo a tollerare l’ansia di consegnare i figli al mondo: ridiamo il terzo spazio ai ragazzi», Matteo Lancini sul Corriere della Sera

 

Condividiamo l’articolo di Valentina Rorato per il Corriere della sera con intervista a Matteo Lancini (12 dicembre 2025)

 

Lancini «Fatichiamo a tollerare l’ansia di consegnare i figli al mondo: ridiamo il terzo spazio ai ragazzi»

di Valentina Rorato

È lo spazio in cui gli adolescenti e i preadolescenti si sperimentano e diventano grandi senza la supervisione diretta di genitori o insegnanti

Il terzo spazio è quel luogo in cui gli adolescenti e i preadolescenti si sperimentano e diventano grandi senza la supervisione diretta di genitori o insegnanti. È il cortile dietro casa in cui giocare a pallone con i vicini, la panchina o il muretto su cui si ritrova la compagnia o il parchetto dove sfidare gli amici a interminabili gare in bicicletta o skateboard. È sinonimo di autonomia, ma anche di amicizia. Una recente ricerca promossa da Ringo, in collaborazione con AstraRicerche, dimostra che quasi 9 genitori su 10 (con figli tra i 7 e i 14 anni) sono consapevoli di quanto questo spazio sia prezioso per la crescita dei figli, eppure solo 1 genitore su 3 lo concede, per paura delle cattive compagnie o che il ragazzo non sia sufficientemente al sicuro. Perché gli adulti sono così spaventati? Lo abbiamo chiesto a Matteo Lancini, psicologo e psicoterapeuta, presidente della Fondazione “Minotauro” di Milano.

«In Italia è venuta meno l’idea della comunità educante a seguito di tante questioni difficili da sottolineare, per esempio, la comunicazione massmediatica impatta sempre di più sulla mente dei genitori, riportando avvenimenti drammatici, e i genitori fanno figli sempre più unici e quindi più programmati, per cui alla fine, allo stato attuale, quando mio figlio oggi ha un bernoccolo provo lo stesso dolore che provava mia madre quando io avevo una frattura scomposta», spiega lo psicoterapeuta. «Questo ha determinato un sequestro del corpo dei figli da diversi anni. Tant’è che la frase “vietato il giuoco del pallone” nei cortili e nelle piazze è comparsa ben prima dell’invenzione e dell’arrivo in Italia dello smartphone, ma ancora prima o mentre arrivava il satellitare».

 

I ragazzi ricercano momenti di autonomia non solo fuori da casa, ma anche online. Internet è utilizzato come terzo spazio da quasi la metà dei preadolescenti (44%). L’attenzione dei più giovani è catturata dai social media (59%), specialmente nella visione di video brevi (YouTube e TikTok). In preadolescenza poi l’uso del web si allarga: tra gli 11 e i 14 anni diventa strumento di studio (47%) e un modo per restare in contatto con gli amici (46%), dati che flettono nella fascia 7–10 anni (35% e 21%).

 

«Ora, quello che è accaduto in questi anni è che si è mantenuta la consapevolezza che è importante fare esperienze di gioco e di socializzazione, ma tutte quelle esperienze che una volta si facevano fuori dal controllo degli adulti sono state vietate proprio dalla cultura adulta e quindi, inevitabilmente, Internet ha avuto, con i suoi interessi, il sopravvento. Oggi questi spazi di gioco e socializzazione, sempre che tua madre non ti insegua e ti raggiunga anche su Facebook, si sono spostati dentro i videogiochi e in spazi social».

Il terzo spazio è a tutti gli effetti il mondo digitale, è lì che i ragazzi si sperimentano? «Sì, con una certa differenza dovuta a tanti settori, non ultimo il fatto che sono esperienze dove i condizionamenti sono legati agli algoritmi e dove, allo stesso tempo, il tema della fisicità si affronta in maniera diversa, ma sicuramente sono diventati gli equivalenti degli spazi in cui si faceva ampia esperienza in passato in una cultura differente. Ed è importante avere in mente che questi spazi, che non ci piacciono, perché si lamentano tutti di Internet, sono in realtà promossi dalla cultura genitoriale, scolastica e politica», prosegue Lancini. «E lo dimostra che, nella nostra città, a Milano, ma ciò vale in molti comuni, quando i giovani si incontrano nelle piazze o nei cortili, senza il controllo degli adulti, sono guardati con grande sospetto».

 

I genitori, pur consapevoli del rischio del digitale, preferiscono tenere i ragazzi in casa davanti agli schermi, perché i pericoli sono meno disturbanti rispetto a quelli che potrebbero correre al parco. Non c’è un po’ di ipocrisia? «Non è un problema di ipocrisia; è un problema di ambivalenze; è un problema di una società complicata. L’importante è avere in mente che da qualche parte gli adolescenti questo spazio dovrebbero poterlo sperimentare. Come racconta la ricerca, i genitori sanno che non sarebbero quello che sono, se non avessero passato del tempo fuori dal controllo adulto con degli amici. Ora, il problema è, semmai, direi sì e non sempre e solo no, ma questo non riguarda solo i genitori, riguarda, ahimè, anche psicologi, psicoterapeuti, tutti noi».

 

Perché riguarda tutti? «Perché fatichiamo a tollerare l’ansia di consegnare i figli al mondo, di riorganizzare degli spazi realmente aggregativi o di gioco dove rischiamo di trovare i figli che tornano a casa, appunto, non illesi. E dall’altra parte, però, facciamo delle grandi riunioni nelle quali diciamo che il cellulare ai ragazzi non va dato, che fa male. Allora, su questo bisognerebbe mettersi d’accordo, perché il problema del togliere tutto in nome della nostra angoscia non va tanto bene, perché al centro ci dovrebbe essere il superiore interesse del minore, non il superiore interesse dell’angoscia adulta. Questo discorso non riguarda solo la famiglia, riguarda la scuola, riguarda colleghi che portano avanti tutti i giorni teorie sul fatto che il malessere degli adolescenti dipenderebbe dallo smartphone o dai videogiochi o dalla musica dei trapper, da tutto ciò che è online».

 

Mai come in quest’epoca gli adulti sono spaventati dalla libertà dei figli e, pur consapevoli della necessità di lasciarli vivere esperienze autonomie, tendono a cadere dell’errore di ipercontrollare i ragazzi, ed è uno dei motivi per cui si dà anche in età precoce lo smartphone o si controlla costantemente il registro elettronico. «Questa ricerca ci dice che le angosce, cioè i miti affettivi che governano i nostri processi decisionali, lo dico anche come genitore, non ci consentono di riconsegnare il corpo e questi spazi alle nuove generazioni e che, quindi, passeranno le serate o i pomeriggi a giocare a Roblox, a Fortnite online e a guardare i film insieme ai coetanei».

 

Come possono i genitori non lasciarsi schiacciare da quelli che definisce i miti affettivi? «Bisognerebbe consentire maggiore autonomia nelle micro-esperienze e questo si potrebbe fare a partire dalle elementari. Il merito di questa ricerca è che pone attenzione a una questione, secondo me, centrale: l’amicizia intesa come valore che costruisci fuori dal controllo degli adulti, nell’età evolutiva, in particolare preadolescenza e adolescenza. Ha un valore unico; è un’esperienza evolutiva che va oltre l’esperienza educativa. È molto di più dell’educare. E come ogni esperienza di crescita comporta dei rischi. Quindi piano piano credo che ognuno, nel suo microcosmo, dovrà pensare a organizzare queste esperienze dando più fiducia ai figli, aiutandoli a crescere. Sono molto favorevole, per esempio, quando i ragazzi si trovano a casa da soli e si fanno da mangiare, perché questa è una buona mediazione per tutti: sono in casa, sono con gli amici, si sentono più protetti e si auto-organizzano».