Riportiamo l’articolo di Katia Provantini “Identità e lavoro” pubblicato da fondazionefeltrinneli.it.
La medicina del lavoro si occupa, per definizione, della prevenzione, della diagnosi e della cura delle malattie causate dalle attività lavorative; in generale si interessa delle condizioni di vita dei lavoratori e di tutti quei fattori che possono generare patologie o che, al contrario, si rivelano supportivi e protettivi per i lavoratori. Negli ultimi anni la sensibilità per i temi della sicurezza nei luoghi di lavoro è notevolmente aumentata, parallelamente alla consapevolezza di quanto il benessere si correli a temi come salute, produttività, sostenibilità etc.
Sinonimo di civiltà e di democrazia, l’attenzione a ciò che, direttamente o indirettamente, il lavoro può causare ci consente di occuparci adeguatamente degli individui e del loro sviluppo. In questa logica, il fenomeno dei giovani che rinunciano al lavoro rappresenta un’emergenza mondiale anche solo per l’impatto sull’economia e sul welfare dei singoli paesi: sono oltre due milioni i giovani non impiegati in Italia mentre in Giappone, dove il fenomeno è presente da più tempo, si sono resi necessari finanziamenti pensionistici per i ritirati più vecchi e Centri di cura specializzati per le patologie secondarie, sviluppate in seguito al perdurare delle condizioni di chiusura. Occuparsi del disagio connesso al non-lavoro è quindi necessario e urgente, soprattutto se si considera che le difficoltà delle ultime generazioni sembrano attivate da sentimenti di precarietà e di perdita di valore, sperimentati dagli individui durante il processo di inserimento sociale; questioni che riguardano cambiamenti storici e sociali repentini e imponenti.
I giovani che possiamo considerare “Neet” (Not in education, employment or training) sono attualmente in Italia quasi il 25% dei giovani tra i 15 e i 29 anni. La fotografia (studio Unicef Italia 2018) dei giovani che non studiano, non lavorano e non seguono alcun corso di formazione vede maggiormente rappresentato il sud (35-38% dei giovani siciliani, calabresi e campani), con una presenza significativa di diplomati (49%) e addirittura di laureati (11%). A livello europeo, l’Italia è il paese in cui il fenomeno è più diffuso ed equamente distribuito tra maschi (48%) e femmine (52%), contrariamente a quanto avviene negli altri paesi in cui è maggiormente coinvolta la popolazione femminile; le percentuali si fanno ancora più severe se si considerano anche i giovanissimi (tra gli 11 e i 15 anni) che manifestano forme di ritiro scolastico e sociale, interrompendo la frequenza scolastica e chiudendosi in casa.
Considerando numeri e percentuali, si può facilmente comprendere quanto il fenomeno, che coinvolge oltre due milioni di individui, risulti composito e variegato nelle sue molteplici manifestazioni e specificità. Tuttavia alcuni macro fattori storico-politico-economici possono considerarsi trasversali e ricorrenti, a partire dallo sviluppo tecnologico che ha reso i processi non lineari e non facilmente prevedibili e dalla complessità assurta a dimensione ontologica del reale; allo stesso livello, ci sono da considerare le trasformazioni repentine del mercato del lavoro, i cambiamenti dei modelli educativi familiari, la crisi profonda delle istituzioni scolastiche e delle modalità di insegnamento/apprendimento tradizionali.
Dal punto di vista clinico, un aspetto significativo ricorrente è la dimensione del desiderio e della percezione di valore in relazione all’esperienza lavorativa; gli aspetti idealizzati del ruolo professionale, come espressione autentica di parti pregiate di sé, costituiscono una sorta di denominatore comune nelle storie narrate dai giovani che si ritirano e smettono di immaginare/desiderare/progettare il proprio futuro lavorativo.
La sfiducia che pervade le vite di questi individui è direttamente proporzionale al sentimento di disvalore assoluto, al convincimento di non possedere alcuna qualità o competenza; non c’è spazio lavorativo previsto per loro e non c’è nulla su cui possano contare per modificare questa condizione. Pensano di non saper fare nulla o che ciò che sanno fare non servirà a niente a nessuno; da qui il convincimento di essere superflui e di aggravio per gli altri mentre, soprattutto i più grandi, sviluppano un sentimento di ingiustizia e di danneggiamento che hanno subito dagli altri, dal mondo, dalla vita stessa.
La rappresentazione di sé nei giovani ritirati è deteriorata; l’assenza di competenze assume la dimensione dell’inabilità immodificabile, a cui conviene adattarsi e rassegnarsi. Il senso di fallimento e di profonda inutilità interferisce con il processo identitario: non tanto perché si tratta di giovani che non hanno ancora sviluppato un’adeguata consapevolezza di sé (e di conseguenza non possono contare su una fiducia di base e a priori del proprio valore), quanto per il fatto che l’identità soggettiva si alimenta di ciò che gli individui sanno fare o pensano di saper fare.
La dimensione pragmatica del sé agente assume oggi un significato estremamente importante: nonostante occorra interrogarsi sulle possibili derive riduzionistiche, che si rischiano assimilando l’individuo alle sue prestazioni, bisogna considerare che l’identità individuale adulta (come un individuo si percepisce e si definisce) risulta oggi strettamente connessa con la capacità di fare e di agire nei contesti di vita. Dalla capacità trasformativa delle proprie azioni dipendono il valore di sé e l’autorizzazione a desiderare, a sperare, a sentirsi amabile.
In questa prospettiva, il funzionamento intrapsichico dei giovani ritirati denuncia l’incapacità di assolvere al compito ideale di sviluppare le migliori e inequivocabili abilità personali, assumendo la responsabilità di rispondere alle proprie aspettative e a quelle (reali o presunte) degli altri significativi, familiari o pari che siano.
L’intervento clinico con i giovani ritirati può presentare notevoli complessità; in primo luogo perché la percezione del fallimento intacca la fiducia non solo verso sé ma anche negli altri, nella società in generale e negli adulti in particolare, nel futuro, nel concetto stesso di aiuto e di cambiamento. La totale assenza di prospettiva e l’assenza di una vera richiesta di aiuto li rende soggetti inavvicinabili e bizzarri: per le categorie tradizionali della clinica, individui portatori di patologia individuale, relazionale e sociale. Se, inoltre, si considera la precocità delle prime manifestazioni di ritiro e il perdurare dell’assenza di stimoli facilmente si possono riscontrare anomalie dello sviluppo e del funzionamento psichico.
L’alternativa è ripartire dai numeri e considerare questa moltitudine di giovani senza futuro (e senza il desiderio di combattere per costruirlo) l’espressione e la conseguenza di cambiamenti epocali e repentini che hanno sradicato vecchie logiche di funzionamento, senza riuscire a trasformare i modelli di crescita individuale e sociale, in modi coerenti e positivi.
Il livello di scoraggiamento e disillusione impone ai clinici di cercare nuove modalità di intervento: l’assenza di un progetto e di un desiderio di vita richiede la necessità di ricostruire la speranza; partendo dalla relazione con il clinico, condividendo i i vuoti e iniziando a sperimentare lievi momenti di pieno (un pensiero, un gioco, un’esperienza bella etc). Il fare condiviso costituisce una tappa fondamentale per arrivare a percepire la propria capacità di costruire, di trasformare e di esistere facendo.
In generale, la ripresa evolutiva di giovani che fuoriescono dai contesti istituzionali e che si ammalano perché impossibilitati a sviluppare un proprio ruolo professionale e di vita, dipende dalla presenza di adulti competenti, che accompagnino nella complessità e che sostengano la continua donazione di senso, dell’esperienza vissuta e delle difficoltà che si incontrano.
Si tratta di un sostegno alla speranza, assoluta e a priori, e alla possibilità di farcela; poi arrivano lo sviluppo di competenze individuali trasversali, le sperimentazioni di azioni efficaci e trasformative, lo sviluppo di sempre maggiori aree di autonomia nella gestione di sé e nell’adattamento alle differenti richieste del contesto di vita. Poi ancora, occorre lavorare alla costruzione del “ruolo professionale” che si fa ruolo sociale, interfaccia tra sé e gli altri, che rende presentabili e narrabili, recuperando creatività e talenti.
Tutto questo ha bisogno, infine, di territorio e di radicamento; anche nell’era della tecnologia e dei virus, l’esistenza dell’altro e di un bene comune a cui si può partecipare e a cui si può contribuire è di fondamentale importanza per costruire e dare significato a sé e al mondo.
Fonte: Fondazione Feltrinelli