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Condividiamo l’intervista di Monica Coviello a Matteo Lancini per Vanity Fair.

Il dramma di Riccardo Faggin, morto schiantandosi con la sua auto il giorno prima della presunta discussione della sua tesi di laurea in Scienze Infermieristiche, non è un caso così isolato. Il 7 ottobre, nel fiume Reno, alla periferia di Bologna, è stato trovato il cadavere di uno studente 23enne iscritto alla facoltà di Giurisprudenza. Aveva detto ai parenti e agli amici di essere prossimo alla laurea, ma non era così.

A luglio uno studente trentenne, iscritto della facoltà di Medicina in lingua inglese dell’Università di Pavia, ma bloccato al terzo anno, prima di suicidarsi ha scritto una mail al Rettore in cui spiegava di avere paura di perdere la borsa di studio e quindi di non avere più la possibilità di alloggiare nelle residenze universitarie: «Sono lo studente che si è tolto la vita in collegio: non sono riuscito a cambiare nulla. L’Edisu (l’ente per il diritto allo studio universitario, ndr) ha cercato di aiutarmi e gliene sono molto grato ma non è solo una questione economica ma anche di (in)giustizia».

A ottobre 2021, sempre a Bologna, uno studente fuorisede è stato trovato morto sotto il Ponte Stalingrado. I familiari stavano per raggiungerlo in città per la sua laurea che, in realtà, non era in programma.

A luglio dello stesso anno, all’interno della facoltà di Lettere dell’Università Federico II di Napoli, uno studente di 25 anni era stato trovato morto. Aveva descritto ai familiari un percorso di studi che però non era mai stato compiuto.

I genitori di Riccardo Faggin, nelle interviste che rilasciano in queste ore, si rimproverano «di non aver saputo leggere i segnali, di non avergli insegnato a essere più forte, almeno ad avere quella forza che serve per chiedere aiuto», ha spiegato papà Stefano al Corriere. «Provo vergogna come genitore».

La reazione dei genitori dello studente padovano testimonia tutta la drammaticità di quello che è avvenuto, ma, come ci spiega Matteo Lancini, psicologo, psicoterapeuta e presidente della Fondazione Minotauro di Milano, «i modelli di identificazione, in questa società individualista e che non tollera le delusioni, non dipendono solo dalla famiglia, ma anche dal contesto sociale in cui vivono i ragazzi, dalla scuola, alle relazioni con i coetanei. I nostri figli stanno crescendo immersi in un modello che alimenta la competizione. L’ambizione personale è sana, ma va collocata in un contesto in cui la possibilità di fallire sia tollerabile. Tocca a tutti noi costruire una società di questo tipo».

Perché succedono queste cose?
«Perché si cresce in una dimensione in cui l’idea di fallire non è accettata, e questo fa sì che parlare dei propri insuccessi sia sempre più difficile. Oggi –  e questo lo dico slegandomi dalla tragedia di Riccardo – i ragazzi si trovano spesso davanti ad adulti fragili, che reagiscono in modo inadeguato, banalizzando o aggravando il problema, di fronte all’ammissione di fallimento da parte dei figli. Che, a loro volta, smettono di cercare in loro un interlocutore per non deluderli. La fragilità adulta è uno dei temi su cui lavorare: il genitore non è più visto come qualcuno a cui riferirsi per i propri bisogni e, quindi, anche per i propri fallimenti».

Che diventano insormontabili.
«Sì. I ragazzi, a questo punto, decidono di “risolvere” i loro problemi – difficoltà che potrebbero essere elaborabili – parlandone con un amico, nel caso migliore, o in solitudine. Quando percepiscono che un ostacolo è insormontabile, possono decidere di sparire, e questa è spesso la causa del ritiro sociale o dei suicidi giovanili. Prima di uccidersi, una volta i giovani lasciavano una lettera di addio, mentre oggi, talvolta – come abbiamo rilevato in diversi tavoli di discussione sull’argomento – simulano un incidente e lasciano i genitori con il dubbio di che cosa sia accaduto davvero».

Ci sono segnali di allarme?
«Non è sempre facile intercettare i segnali: spesso non ci sono, non sono percepibili all’esterno, quando si coltivano pensieri suicidali. La vera prevenzione non consiste tanto nel cercare campanelli d’allarme, ma nel coltivare la propria capacità di ascolto reale. Bisogna imparare a fare anche domande scomode ai ragazzi, domande vere. Dobbiamo interrogarci sulla nostra capacità di guardarli come soggetti con le proprie caratteristiche. Oggi è come se volessimo rimuovere ogni ostacolo dal percorso dei figli, ma gli inciampi, i malesseri e i dolori fanno parte della vita, e aiutano a crescere».