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Riportiamo l’articolo di La Repubblica con il contributo di Katia Provantini all’interno di un evento formativo svoltosi a Parma sull’attuale tematica del ritiro sociale in adolescenza.

Il senso di scacco, di inutilità e di vergogna che porta molti adolescenti a rifiutare la relazione col mondo affonda le sue radici nell’infanzia e nella forte valorizzazione del bambino che caratterizza la prima fase della vita, come mette in luce Katia Provantini, psicoterapeuta dell’istituto Minotauro di Milano: “A partire dagli anni Settanta è stato costruito un modello di relazione con l’infanzia molto particolare: ai bambini, molto valorizzati, è stato chiesto di cercare presto la propria specificità, il proprio talento ipotizzando che se individuiamo precocemente il nostro talento, questo ci aiuterà a essere speciali”.

Ma quando i bambini diventano adolescenti, si trasformano e seguono aree magari sconosciute per l’adulto, “qui i genitori si spaventano, ritirano tutte le deleghe di autonomia e tornano a un paradigma autoritario chiedendo ai pre-adolescenti di diventare adulti nel nome della responsabilità e di un progetto imposto dagli adulti dopo avere però passato anni a dire che in quei progetti non si credeva”.

Da qui, un disorientamento che porta il ragazzo a rivolgere lo sguardo all’infanzia come al tempo nel quale ci si sentiva bravi, speciali, talentuosi e in grado di fare grandi cose mentre “nella adolescenza si catalizzano esperienze che sono tutte nel segno della perdita e della disillusione rispetto all’idea di essere speciali e talentuosi”.

L’arrivo in adolescenza, sul piano evolutivo, diventa una vicenda traumatica: “La fatica che viene fatta per studiare appare come il segno di una mediocrità, il sintomo del fatto che non si è speciali come si credeva. Questo è un sentimento che toglie la speranza e porta a credere che non ci sia più nulla da fare”.

Per contrastare questa deriva delle speranze e questo arenarsi sulle sponde di una sfiducia e di una disillusione paralizzante, “bisogna tornare a un’idea di talento meno enfatica: il talento non deve essere considerato qualcosa di originario e naturale ma come frutto di un processo di apprendimento, di fatica e impegno mai a costo zero: tutta la crescita prevede una quota di dolore mentre i ragazzi oggi sono quasi convinti che se sei speciale e se hai valore, non sperimenti il dolore che è appannaggio dei limitati. L’incontro col dolore è sentito come dimostrazione concreta di non essere speciale e questo oggi porta alla vergogna”.

Per aiutare l’adolescente a uscire dalla gabbia nella quale si auto-reclude, sentendosi condannato all’isolamento dai tanti sguardi giudicanti che sente su di sé e che lo portano a vergognarsi per la mancata corrispondenza con l’immagine ideale costruita nell’infanzia, è utile fare sentire al ragazzo uno sguardo terzo, esterno, differente, capace di cogliere una potenzialità nel suo concretizzarsi attraverso un fare condiviso: “Al Minotauro, abbiamo immaginato un modo di stare con questi ragazzi collaborando insieme, condividendo attività come cinema, cucina, disegno, cucito: qualsiasi attività nella quale il ragazzo non rischi di sentirsi annientato da un giudizio negativo e attraverso la quale riesca a sperimentare e a radicare un senso di potenzialità che si fa concretezza, un fare che è efficacia, una identità che gli altri riconoscono legata a quella capacità di mettere in campo un’azione che acquisisce senso. Il ragazzo sperimenta una bellezza responsabile che nasce dall’impegno, da una esperienza di coralità che non solo lenisce, calma e silenzia la voce interiore che annichilisce ogni speranza ma fa emergere il desiderio di mettere la propria capacità appena sperimentata a disposizione del mondo: la speranza diventa desiderio, ipotesi di un progetto da condividere con gli altri. La chiusura non è per sempre: quando i ragazzi ricominciano a progettare, escono dalle loro quattro mura d’angoscia e tornano a scoprire se stessi”.

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