Seleziona una pagina

Condividiamo l’editoriale di Andrea Malaguti con l’intervista a Matteo Lancini per La Stampa.

Siamo ancora in grado di educare i nostri figli? Che cosa ci aspettiamo da loro? Quali responsabilità abbiamo nei loro confronti? Per provare a rispondere metto assieme due cose apparentemente incongrue e sideralmente distanti. Primo: a Sori, nella città metropolitana di Genova, un ragazzino di tredici anni accoltella un quattordicenne per un like postato sul profilo Instagram di una coetanea, ultima follia estiva di una serie di aggressioni da parte di minori, tutte regolarmente filmate, postate e condivise. Secondo: l’Intelligenza Artificiale produce una fotografia in cui Donald Trump bacia ardentemente Kamala Harris, in un’immagine inverosimile, fasulla, eppure credibilissima, che fa il giro del pianeta. Se volete il dettaglio, basta un click in rete. Nel nuovo brodo primordiale degli algoritmi padroni delle nostre esistenze, tutto si trova e tutto si confonde, con il risultato di condizionare non solo il nostro quotidiano, ma la nostra sensibilità in generale.

È la società «Onlife» di Luciano Floridi, in cui la differenza tra reale e virtuale è invisibile. L’acqua salmastra dove crescono le mangrovie, innaturale fusione tra le correnti dolci dei fiumi e quelle salate dei mari. Un terreno scivoloso che cambia rapidamente il nostro ecosistema. È un bene? Un male? O una circostanza con la quale avremmo dovuto fare i conti da un pezzo?

Genova, l’accoltellamento. Il ragazzino, perennemente connesso, vede sui social un pollice alzato che lo disturba, esce con un coltello (lo porta sempre con sé o solo quella volta?) e, titolare già a tredici anni di una visione patriarcale, maschilista e proprietaria della sua forse ex ragazza, va a cercare il rivale. È furioso, nella sua testa regolare i conti davanti ad altre persone è un modo per ristabilire il suo equilibrio. Si sente umiliato. Tutti hanno visto. Una massa indistinta conosce la sua ferita. E, come dice Byung Chul Han («Nello sciame», Nottetempo), in una società pornografica, abituata ad ostentare, priva di compostezza, di contegno, e schiava dell’autorappresentazione di sé, «il medium digitale è il medium dell’eccitazione». Dunque, eccitato, il ragazzino agisce, nella certezza, temo, che in rete un esercito di anonimi legittimerà la sua scelta scellerata. Era davvero invisibile la sua rabbia?

Ne parlo a tavola, con amici torinesi, due sere fa. Una psicoterapeuta e un giornalista con figli. Si scatena un dibattito senza fine. Due le posizioni. I ragazzini, incapaci di gestire le frustrazioni, schiavi della bolla social, paladini dell’«Io non tollero», scatenano la rabbia contro loro stessi (facendosi del male, tentando il suicidio, precipitando nell’anoressia) o contro gli altri. A sostenerlo è soprattutto l’ala adulta della tavola. Quella per cui: i social fuori controllo sono il nuovo Grande Satana. I più giovani sostengono invece che noi anziani siamo ossessionati, per non dire infastiditi, da ciò che non capiamo (a partire da loro), che la violenza c’è sempre stata e dunque internet – universo ricco di opportunità mai avute prima – si limita a rappresentare una sensibilità sfortunatamente millenaria. Anzi, il web lo usiamo ancora troppo poco.

Non sapendo esattamente con chi stare, ma più propenso a dire che i nostri figli gestiscono le frustrazioni con difficoltà (non che noi fossimo particolarmente bravi in questo), chiamo Matteo Lancini, una specie di genio controcorrente della psicologia, presidente della fondazione Minotauro e mille altre cose, che, con gentilezza, sposa una parte delle teorie di entrambe le fazioni da tavola, introducendo però un terzo elemento, dal suo punto di vista decisamente più rilevante: la fragilità degli adulti e il crollo delle agenzie educative, scuola e famiglia. Dunque, estremizzo, colpa nostra. Perché?

Secondo Lancini, mentre noi fingiamo di stare comodi dentro un clamoroso, autoassolutorio, equivoco, ci dimentichiamo di ragionare sui motivi che spingono i nostri figli verso questo meccanismo di distruzione-autodistruzione.

Così, mentre gli parlo di rottura del patto generazionale dipingendo i social come agenzie di stampa dell’io (definizione di Alain Deneault) in una società che rimuove il dolore, lui m’invita a spostare lo sguardo. Probabilmente ad alzarlo. «Perché tanti ragazzi, penso agli hikikomori, si suicidano socialmente nel momento esatto in cui, invece, dovrebbero “nascere” socialmente?». Perché sono fragili, gli rispondo. «Perché lo sono gli adulti attorno a loro. Mai vista una generazione di adulti fragile come questa, e guarda che la disperazione dei giovani non arriva solo dalle fasce meno agiate. Questo dimostra che il disagio non è di tipo economico, piuttosto di tipo psichico». Colpa dei genitori? «Colpa loro e della scuola. Non riescono a mettere i ragazzi al centro. Ad ascoltarli. A capire davvero che cosa vogliono. Mi ha colpito che in una delle ultime occupazioni scolastiche romane, tutti discutessero dei danni fatti e di come rispedire gli occupanti-delinquenti a casa, ma nessuno si chiedesse perché erano lì. E mai come oggi i ragazzi hanno motivi seri per protestare». Guerre, clima, diritti, lavoro, ascensore sociale bloccato, difficoltà a costruirsi una famiglia. Lista lunghissima, in effetti. Questo giustifica tutto? Naturalmente no, ma spiega molto del loro disorientamento. Anche perché nel complicato mondo dell’Onlife, i più giovani sono stati anticipati da genitori che passano le giornate tra selfie, storie Instagram e post su Facebook. Questo il modello che passa e che passano. Un individualismo senza regole. «Ma raramente un adulto è capace di entrare nella complessità di un adolescente. Anzi, i ragazzi molto spesso si trovano di fronte a situazioni paradossali. In un mondo sempre più interconnesso, in cui l’intelligenza artificiale avanza, all’esame di maturità li perquisiscono – li perquisiscono! – per assicurarsi che non siano in rete». Se la citazione non fosse pericolosa, sarebbe la fotografia del mondo al contrario. «Siamo in una società adultocentrica senza precedenti. Una volta i nostri genitori ci mettevano al mondo e ci lasciavano liberi. Oggi facciamo i figli perché, tra un corso di nuoto, uno di tennis e uno di inglese, esprimano quello che vogliamo noi e se si fanno un bernoccolo reagiamo come se avessero una frattura scomposta». Non guardiamo loro, guardiamo noi stessi. Col risultato di lasciarli andare alla deriva. Soluzioni? Discorso complicato, ma per cominciare bisognerebbe scegliere due strade: o l’abolizione di qualunque telefonino e connessione a scuola, per ricreare un antico universo di relazioni. Oppure, strada più contemporanea, sdoganare definitivamente la tecnologia per farne parte integrante di un percorso educativo vero.

Ma come lo spieghi a una politica che educata non è per niente, e, da Washington a Roma, da Budapest a Mosca, impone se stessa come Ape Regina, guida di uno sciame incapace di ritrovarsi intorno a un valore comune, a un Noi coerente? Una politica che – sull’onda dei social – ha sepolto l’idea di rappresentanza (condannando il sistema alla mediocrità) per sostituirla con quella di Influencer Capo?

Mentre la politica novecentesca si è assunta il compito di cavalcare e governare la modernità – istruzione di massa, welfare, urbanizzazione, salario – la politica del nuovo millennio non solo non la capisce, ma non ambisce nemmeno a governarla. La lascia nelle mani dei nuovi oligarchi della Rete: sono loro, sempre di più, le agenzie educative dell’Occidente.

E qui torno al bacio Trump-Harris, all’intelligenza artificiale e a quello che gli esperti chiamano, con un grado di sofisticazione piuttosto indigeribile, il «panottico disciplinare». Ovvero, sentendoci costantemente osservati, interiorizziamo la sorveglianza.

Nell’impossibilità di distinguere il vero dal virtuale, in assenza di regole e di una educazione specifica, il nostro ingresso nell’ecosistema delle mangrovie si fa sempre più rischioso. Chi gestisce l’intelligenza artificiale presto sarà in grado di rimodellare le nostre coscienze, di manipolarle, perché il nostro affidamento al mondo social è così totale, fideistico e abitudinario, che non lo mettiamo più in discussione. Lo diamo per dato, come se la sua presenza fosse neutra, come se ignorarlo ci precipitasse nella squadra dei perdenti. Oggi vedere Trump e Harris che si baciano ci sembra irreale. Presto ci sembrerà tutto vero e tutto possibile, imprigionati in una forma di ipnosi che garantisce pochi eletti e anestetizza tutti noi sempre più bisognosi di un risveglio collettivo per sostituire il medium dell’eccitazione con quello, ancora da inventare, di una ritrovata consapevolezza. Civile e politica.