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Condividiamo l’intervista di Elena Stancanelli a Matteo Lancini per La Stampa.

«Quello che noi qui chiamiamo dolore evolutivo, da altri è classificato come disturbo di personalità». Qui è la fondazione Minotauro. La loro sede, via Omboni 4, è un indirizzo famoso a Milano, aperto a chiunque cerchi un sostegno psicologico ma fortemente orientato sugli adolescenti. Matteo Lancini, il presidente, è uno psicologo e psicoterapeuta oltre che docente universitario.

La prima questione che affronto con lui è appunto quella della diagnosi. «Far entrare soggetti in età evolutiva in un quadro diagnostico nato per gli adulti crea problemi. Anche perché assegna un’identità a un soggetto la cui identità è ancora in formazione. Oltre al fatto che ormai per molte diagnosi non basta una sola categoria. Non si tratta di non dare peso alla psicopatologia, ma di esseri cauti. Per me un soggetto è “matto” se ha perso l’orientamento, delira. Gesti come l’autolesionismo, il ritiro sociale, il tentativo di suicidio, per questi ragazzi non sono la malattia ma la cura. Se non riesci a mettere in parola, a dare senso, a capire perché, a condividere l’angoscia e sentirti meno solo devi trovare un’altra soluzione. E la soluzione, in adolescenza, è l’agito. Nel caso del disagio il farsi male. È una paradossale riduzione del danno. Dire che il ragazzo ha una dipendenza o una malattia significa attribuire a quella dipendenza o alla malattia tutte le responsabilità e in questo modo eludere il dolore, che è invece il centro della questione. Quindi l’angoscia che prende la forma di gesti estremi nei confronti di se stessi, qui al Minotauro, non viene affrontata come una patologia ma come la manifestazione perversa di un dolore. E come si cura questo dolore, chiedo. «Standogli a fianco, non negandolo dall’inizio, dandogli senso. Tutte le ricerche dicono che se tu parli di suicidio con un ragazzo abbassi i fattori di rischio. Questi ragazzi, mi creda, sono meravigliosi. Il dolore, il disagio, consente loro di guardare la mente dell’altro, valutarne la generosità, l’ascolto. Noi li banalizziamo, li chiamiamo bamboccioni, sdraiati, fragili, diciamo che li abbiamo cresciuti e tenuti in una bambagia, invece dovremmo semplicemente accettare che sono cambiati e rivalutare il tipo di relazione che offriamo loro. Servono cooptazione, responsabilizzazione, bisogna dar loro compiti, far loro sentire che l’adulto li ingaggia». Ascoltare il dolore. Noi tendiamo a edulcorare l’esistenza, smussare gli spigoli, crediamo di proteggere i nostri figli nascondendo le asperità ma quello che otteniamo è il contrario. La sofferenza se sminuita non si cancella. Al contrario, si esaspera. Non poter condividere quanto ci rimane oscuro e incomprensibile fa peggio del dolore stesso perché ne scippa la legittimità. Bisogna trova- re il coraggio di parlare di morte, di suicidio anche con i figli. E la pandemia, mesi assedia- ti dalla malattia e dalla morte, avrebbe potuto essere un tempo ideale, avrebbe potuto diventare un laboratorio di ascolto. Ma ancora una volta non è successo. Il Covid se n’è andato, speriamo, e noi lo abbiamo semplicemente cancellato. Come non fosse mai successo, non ne parliamo più. Siamo tornati al consumo, al piacere, al godimento. Alla nostra cultura narcisistica. Anche se, forse, qualcosa è cambiato, e non in meglio. Matteo Lancini ha appena pubblicato un saggio, “Sii te stesso a modo mio, essere adolescenti nell’epoca della fragilità adulta” (Raffaello Cortina Editore) nel quale segnala, tra le altre cose, che potremmo essere entrati in una fase nuova, in quella che lui chiama società post-narcisistica. Che cosa sta accadendo? Durante la pandemia abbiamo immaginato che avremmo potuto trovare nuovi spunti per la didattica attraverso la tecnologia, che poteva finalmente capire come usare Internet a nostro favore, che avremmo potuto ascoltare con attenzione i talenti e le nuove competenze dei ragazzi ipertecnologici. Niente di tutto questo è accaduto. La scuola è tornata nel suo sprofondo, internet si è ritrasformato nel diavolo ei ragazzi in bamboccioni. Solo l’ansia e l’angoscia hanno trovato un habitat perfetto e sono rimaste, stabili, invasive, infestanti nelle nostre esistenze. La nostra risposta di “adulti” sono formule vuote come il detox dalla tecnologia, togliere il cellulare a scuola, banalizzare i video giochi, anziché andare a vedere cosa succede lì. Dobbiamo chiedere ai nostri figli cosa fanno su internet, non tentare di toglierglielo, spiega Lancini. Anche perché hanno imparato da noi, siamo noi a dare l’esempio.

Nella allegra società post-narcisistica, della quale ovviamente noi adulti siamo artefici, per i ragazzi si pone un’enorme questione sull’identità. Per colpa nostra, perché le aspettative riposte sui nostri bambini, cuccioli d’oro li chiama Lancini, sono da tempo immense e insensate. Tutti dei geni dai mille talenti, bellissimi e super performanti, fotogenici e capaci di straordinarie esibizioni. Poi, come una mannaia, arriva per tutti loro la pubertà. «Il nuovo corpo adolescenziale è percepito quasi sempre come deludente, incapace di reggere il confronto con i canoni di bellezza coltivati nel corso di un’infanzia precocizzata e iperstimolata», scrive Lancini e la popolarità subisce un calo vertiginoso quando non è più la mamma a dirigere la socialità. La tribù adolescenziale, lo sappiamo tutti, è un tribunale impietoso. Insomma: sei davvero il figo che la tua famiglia ti ha fatto credere che fossi o sei uno come tutti, o peggio uno sfigato? «Abbiamo cresciuto i bambini dentro questa dimensione di iperinvestimento ideale ma comunque sulla base di chi erano loro e quindi questi bambini avevano un piccolo sé che era quello vero che doveva fare i conti con questo grande ideale, cioè il corpo che non era. Oggi la situazione è peggiorata. In quella che chiamo società post-narcisistica i ragazzi hanno un totale vuoto identitario, come se gli mancasse il sé. Non hanno neanche un piccolo, minuscolo sé». Sovradeterminati dagli adulti, i figli crescono con un mandato paradossale: “Sii te stesso a modo mio”. E mi fa questo esempio: fuori da scuola un bambino di circa sette anni spinge un altro bambino che cade, perché ha lo zaino pesante, e crolla indietro. La madre corre da suo figlio, il bambino che ha spinto, e gli dice «Cosa fai? Non si fa così, questo comportamento è inadeguato!». Lui terrorizzato scoppia a piangere. La mamma si gira verso tutti e dice  «Avete visto? Si è già pentito». «Dov’è il bambino in tutto questo? Non c’è. Tutto avviene nella testa della madre. La società post-narcisistica è una società dissociata negli aspetti, incapace di educare al fallimento, la sofferenza, gli inciampi. Negli ultimi anni è arrivata un’ansia generalizzata, che non è più l’ansia da prestazione, ma è un’ansia di vuoto. E una conseguente polisintomatologia: l’anoressica non si accontenta più del disturbo alimentare – già di per sé così esigente che dovrebbe essere sufficiente-, ma vuole tagliarsi e si suicida; i ritirati non si chiudono solo in casa, ma alcuni di loro vogliono morire».

Ma il sesso, chiedo al dottor Lancini? Noi che siamo nati nel Novecento ci ricordiamo che l’adolescenza è il periodo nel quale abbiamo scapocciato. Ormoni pazzi che ci facevano comportare come dementi, un corpo improvvisamente affamato di piacere, il desiderio che diventava l’unico potere in carica. Il sesso, chiedo, per questi ragazzi non è una risorsa, oltre che un gran pasticcio? «Il sesso è sparito, non c’è più. Non interessa più. Quando ero di formazione, più di trent’anni fa, i grandi maestri mi dicevano se vuoi fare lo psicoterapeuta di formazione psico-analitica o psico-dinamica dell’adolescente, devi studiare due materie che non passeranno mai di moda, soprattutto con i maschi: sesso e motorino. Sono dodici anni che non ho un paziente così. Sesso e motorino, spariti entrambi. Come diceva Silvia Vegetti Finzi, prepariamoci a educare le prime generazioni che cresceranno senza le sbucciature sulle ginocchia». E secondo lei perché, insisto io. «Non c’è più trasgressione nella sessualità, sono nuove normalità. Noi siamo cresciuti per trasgressione e opposizione, la società era sessuofobica, non c’erano i contenuti pornografici, l’adolescenza arrivava come liberazione dai modelli educativi. Il cambiamento biologico, che trasforma il bambino in creatura potenzialmente generante, il cambiamento cognitivo e l’autonomizzazione dai genitori producono una seconda nascita, una nascita sociale dell’individuo. Che fino a poco fa avveniva appunto per opposizione: la destituzione dell’adulto. Quel modello per fortuna è stato superato ma non sostituito. Adesso si cresce non per opposizione ma per delusione. Non si è mai all’altezza delle aspettative. Non si è mai né sufficientemente bello né popolare. La sessualità è sempre più pornografizzata, visibile, annessa alla famiglia. E il corpo erotico non è più importante: conta solo l’estetica. Il piacere sessuale è stato sostituito dal piacere del successo, dei soldi, il divertimento. La cosa più importante è penetrare nella mente dell’altro, penetrare l’immaginazione non il corpo. L’obiettivo è fare in modo che l’altro ti pensi. Il sesso non ha più un connota- zione di realizzazione di sé, oltre al fatto l’atto sessuale non è più funzionale alla sopravvivenza della specie, non è più necessario la concepimento che avviene ormai anche attraverso tecniche diverse rispetto all’amplesso. In questo modo ha perso la sua valenza, non è più il motore della sopravvivenza della specie. Abbiamo, giustamente, cresciuto figli e soprattutto figlie spiegando loro l’importanza dell’autonomia e adesso sono, giustamente, riluttanti a sviluppare dipendenze affettive. Noi siamo nati con Freud, sulla pulsione sessuale si è costituito il Novecento, il rischio è che questo sia il secolo della sparizione del sesso, come spiega Luigi Zoja, nel suo saggio “Il declino del desiderio” (Einaudi stile libero, ndr)».

Eppure, ovviamente, ne sanno più di noi. «Io non mi sarei mai immaginato di incontrare ragazzi e ragazze di 14-15 anni che decifrano il funzionamento dei genitori e dei docenti – funzionamento relazionale e affettivo – molto di più di quanto facciano loro stessi. Eppure, nonostante avrebbero molti motivi per incazzarsi e fare la rivoluzione, attaccano più loro stessi che gli adulti. Cioè trovano nel loro corpo un megafono per il dolore che non riescono a esprimere. Avremo sempre di più suicidi in incidenti stradali mascherati per incidenti stradali per non far soffrire i genitori. L’adulto è troppo angosciato e l’adolescente non può fargli arrivare notizia di come sta davvero, prova a gestire il suo dolore in modo suo. La pandemia ha consentito a molti ragazzi di dire che stavano male ma stavano male anche prima e questo non lo penso solo io, ma tutti gli psicoterapeuti con cui lavoro ai tavoli che studiano le ricadute della pandemia sulla salute mentale dei giovani. Non è colpa vostra, insegnanti, scuola papà e mamma: è colpa della pandemia. Ma non è vero. È il loro modo di proteggerci. Ma cosa facciamo noi per proteggere loro?».