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Condividiamo l’intervista di Chiara Baldi a Matteo Lancini per il Corriere della Sera.

Di Alessia Pifferi, la 36enne che ha lasciato morire «di stenti» la figlia Diana, 18 mesi, bisognerà «indagare il processo dissociativo che l’ha portata, da un lato, a provare a mantenere in vita la bimba evitandole una morte violenta e, dall’altro, a lasciarla in una sopravvivenza ipotetica senza futuro — che poi è quello che è successo — per andare a
farsi i fatti propri». Matteo Lancini, psicologo psicoterapeuta presidente della fondazione Minotauro di Milano, riflette con cautela sulla vicenda delle piccola Diana:
«Bisogna vedere se quanto uscito finora sarà confermato dalle indagini. E bisognerà aspettare le perizie e l’autopsia sul corpo della bimba» per capire se e in che modo le
benzodiazepine somministratele dalla madre hanno influito sul decesso.

Professore, che idea si è fatto di questo delitto?
«Non conosco la donna né mi pare si sia capito molto del contesto. Però in questo caso emerge un elemento: la donna rifiutava sia la figlia che la fatica che avere dei figli
comporta: si devono fare sacrifici, i bambini, soprattutto quelli molto piccoli, per anni assorbono gran parte delle energie della mamma».

Perché questa storia colpisce così tanto la pubblica opinione?
«L’elemento più difficile da accettare è quello dell’abbandono: qui c’è una mamma che non ha ucciso la figlia strozzandola o con delle coltellate. L’ha fatta morire di stenti. L’ha
lasciata sola dandole solo qualche piccolo aiuto e poi se n’è andata ammettendo solo dopo che era consapevole che poteva succederle qualcosa…»

Ha fatto come si fa con i ragazzi più grandi o con gli anziani…
«Sì, ha attivato un processo di “adultizzazione” della figlia che va sicuramente indagato. Ho letto anche che si è accorta molto tardi di essere incinta (al settimo mese, ndr) e già
questo mi una forte mancanza di attenzione. Le gravidanze non volute esistono ma a quanto pare nessuno se n’è incaricato né se n’è accorto».

Da quello che risulta, la donna ha detto molte bugie per giustificare il fatto che fosse sola a Leffe dal compagno. Perché?
«Questa sarà la cosa più difficile da valutare: diceva bugie in modo molto convincente o soffriva di una forma dissociativa? Chiarire questo aspetto sarà cruciale per capire che
cosa è successo».

Cosa intende per «forma dissociativa»?
«Sembra che da un lato la donna volesse mantenere in vita Diana: non l’ha uccisa con un atto violento come è successo in altri casi di matricidio. Le ha anzi lasciato un biberon,
dell’acqua… Dall’altro, però, non ha deciso di prendersene cura davvero: l’ha lasciata in una sorta di sopravvivenza ipotetica senza alcun futuro per andarsene dal compagno. E
infatti non ha avuto futuro, Diana».

Come influisce l’ambiente sociale in questa vicenda?
«A differenza di altri casi in cui madri uccidono i propri figli, mi sembra che quella di Diana non sia un raptus ma una storia di anaffettività lunga 18 mesi, durante i quali la madre ha
messo in atto quella forma dissociativa di cui parlavamo prima. E nel contempo, le persone intorno a loro, dalla sorella di Pifferi, alla madre, all’attuale compagno, al padre
della bimba, ai vicini di casa, non si siano accorti e di conseguenza non siano intervenuti per fare in modo che la bambina potesse continuare a vivere, magari affidata agli
assistenti sociali e a un’altra famiglia».

In che contesto viviamo?
«La nostra è una società, e purtroppo questo tocca anche una realtà come Milano, in cui si vive la genitorialità in solitudine, c’è un’assenza totale di genitorialità condivisa: perché
invece che lasciare lì la bimba questa donna non aveva una persona a cui affidarla? Di solitudine possiamo parlare anche per la bambina: non solo la madre l’ha lasciata sola,
ma anche tutte le persone che le erano intorno non si sono preoccupati per lei».