Condividiamo l’intervista di Rita Balestriero a Matteo Lancini per Repubblica.it
Mette in crisi come tutte le cose che di solito dice il suo autore, lo psicologo e psicoterapeuta Matteo Lancini. Ma il suo nuovo saggio però, a volte persino consola, senz’altro fa riflettere molto. “Leggetelo perché parla di noi”, ho scritto alle mie amiche. Ma non è un riconoscersi leggero come potrebbe essere con un libro di Sally Rooney, è piuttosto una presa di coscienza: siamo genitori in un momento storico pieno di contrasti in cui non è facile restare in equilibrio. Eppure se impariamo a riconoscere i trabocchetti che ci fanno inciampare tanto spesso, magari possiamo cadere un po’ meno.
Lancini partiamo dal titolo del libro, Sii te stesso a modo mio (Raffaello Cortina Editore): è una provocazione?
“Significa che vogliamo figli affettivi ma poi non siamo davvero disposti ad ascoltarli perché non vogliamo che ci facciano soffrire. Significa che siamo terrorizzati dall’idea di concedere loro libertà d’azione e quindi “sequestriamo” il loro corpo monitorandoli di continuo, ma quando loro, costretti in casa, si rintanano su internet li sgridiamo e urliamo alla dipendenza. O ancora, penso alle insegnanti che accusano i bambini – soprattutto i maschi – di essere troppo competitivi, ma poi sono le prime a puntare su un sistema fatto di note, voti e bollini per premiarli o riprenderli. Per non parlare dello sport, penso per esempio alle squadre di calcio che, fin dai primi anni, dividono i bambini tra il team dei forti e quello degli scarsi. Cosa ci aspettiamo da chi cresce così? Diventa competitivo per forza”.
E qual è il risultato?
“Una gran confusione. Noi ogni giorno incontriamo ragazzi che si sentono soli nella relazione con i loro genitori e in mezzo agli altri, ma che non sanno esprimere il loro disagio. Che faticano a trovare se stessi”.
Ma se da tempo diciamo che non esiste più la famiglia normativa, che i genitori di oggi sono ossessionati dalla felicità dei loro figli, perché questi ragazzi non riescono a parlare in casa?
“Nel libro racconto un episodio significativo. Una ragazza universitaria di 21 anni scopre guardando Instagram che una sua coetanea, che vive nella sua stessa città, si è suicidata. La notizia la turba, ma non fa nemmeno in tempo a riordinare i pensieri che sente una chiave girare nella toppa della porta di casa. È sua madre che è rientrata prima del previsto. “Hai sentito cosa è successo a quella ragazza? Ero troppo angosciata, non riuscivo a lavorare, sono dovuta tornare a casa da te”.
E poi?
“La figlia resta in silenzio, non può far altro che ascoltare la madre che le riversa tutte le sue preoccupazioni e angosce suscitate dalla notizia. Così tocca alla ragazza consolare la madre, farsi carico delle sue paure. Il comportamento di questa mamma è emblematico: se io fossi andato a parlarle, sono certo che mi avrebbe raccontato di aver affrontato l’argomento del suicidio con la figlia. E invece ha fatto finta di farlo, ma non le ha neppure chiesto come avesse reagito alla notizia, come si sentisse, non l’ha ascoltata. Però è rientrata apposta a casa, ha interpretato il ruolo della brava mamma. E questo le basta per sentirsi a posto”.
Al suicidio e alla morte dedica più pagine.
“Sento sempre dire che ai ragazzi occorrerebbe un’educazione alle emozioni, perché non sanno riconoscerle, non sanno dare loro un nome, non sanno interpretarle e quindi gestirle. Ma siamo sicuri? Non sono piuttosto i genitori e gli insegnanti a rifuggire dalle emozioni negative? Cosa li spaventa? La paura di aver fallito nel loro ruolo? Giocando con il termine green washing di cui si sente tanto parlare, ho creato il neologismo enjoy washing per spiegare che la difficoltà di molti ragazzi nell’esprimere le loro emozioni dipende anche dal fatto che gli adulti, per primi, non le ammettono perché – essendo fragili – le ritengono troppo dolorose. Educare i figli alla morte non significa né sminuirla né avvicinarla come ipotesi allettante. Vuol dire accompagnarli ed essere loro vicini quando, con l’arrivo della pubertà e del nuovo corpo, si scoprono esseri mortali”.
Non pensa mai che leggendo i suoi libri i genitori si possano sentire colpevolizzati?
“No, non si tratta assolutamente di puntare il dito contro i presunti responsabili. Il mio vuol essere uno stimolo a cambiare il modo di pensare e di educare le nuove generazioni. Per smettere di addestrarli alla perfezione in ogni ambito, spiegando loro che dagli inciampi ci si può sempre rialzare e che gli errori aiutano a crescere. Ci serve il coraggio di chiedere ai nostri figli come stanno davvero e il coraggio per accettare le risposte che non ci piacciono. Forse così, trovando un terreno fertile al germogliare dell’espressione di sé e delle proprie fatiche, e trovando una figura adulta che sia davvero disposta all’ascolto e meno giudicante, avranno il coraggio di aprirsi di più, di dirci chi sono e come stanno. Di essere se stessi a modo loro”.