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Condividiamo l’intervista di Giovanna Sciacchitano ad Alessia Lanzi per Avvenire sul fenomeno del ritiro sociale nel contesto attuale.

Abbandonare la scuola, gli amici, lo sport e la vita all’aperto per chiudersi nella propria stanza. Il ritiro sociale degli adolescenti, disagio che mette a dura prova sempre più famiglie, è emerso con tutta la sua drammaticità con la pandemia e oggi è in aumento in Italia e in tutta Europa. Lo scorso anno ben 543mila giovani hanno lasciato la scuola dopo la licenza media e sta crescendo il numero di richieste di presa in carico da parte dei servizi di neuropsichiatria infantile per problemi psicologici di adolescenti.

Di questa sofferenza nascosta ha parlato, nell’ambito del ciclo di incontri ‘Le conquiste della medicina al servizio della persona’ organizzati a Milano dalle Fondazioni Ambrosianeum e Matarelli, la psicoterapeuta dell’Istituto Minotauro Alessia Lanzi, che si occupa da dieci anni di ragazzi ritirati. «Gli hikikomori giapponesi hanno rappresentato il primo segnale di allarme – spiega –. Il Covid è stato un detonatore che ha portato alla luce un fenomeno sociale, un disagio della generazione adolescenziale che in realtà si manifesta già da anni. I ragazzi sono stati chiusi in casa, davanti allo schermo per la didattica a distanza (Dad). Purtroppo la Dad, anche se ha avuto il merito di mantenere un legame con la scuola, non si è rivelata un’esperienza di aiuto alla crescita anche perché la maggior parte degli insegnanti non era pronta a un cambiamento di mentalità. Molto spesso è stata una trasposizione di quello che accadeva nella realtà della classe e ha comportato tanti disturbi legati l’isolamento».

Secondo la psicologa, il ritiro sociale colpisce soprattutto i maschi e non riguarda solo determinate classi sociali. «Non ha a che fare con famiglie che hanno un reddito basso o che vivono nelle periferie – chiarisce –. Il ritiro si può trovare anche in una famiglia in cui tutto è andato sempre bene, in cui i genitori lavorano e con uno status sociale ed economico alto. Possiamo parlare di un disagio trasversale ». Le richieste di aiuto arrivano soprattutto dai genitori. «È difficile che un ragazzo ritirato voglia uscire dalla sua situazione e questo accade non perché questi adolescenti siano svogliati, non perché stiano bene, in realtà soffrono tantissimo, – continua –. Ma perché percepiscono, nella situazione di blocco, che non c’è futuro, che non c’è speranza. Quindi si adagiano in una situazione di dolore psichico molto profondo senza trovare risorse per poterne uscire».

Una sofferenza che si rispecchia nei genitori, a loro volta in grande difficoltà perché si scoprono impotenti. «Sono nell’impossibilità di esercitare il proprio ruolo genitoriale e si sentono molto frustrati, ma d’altra parte si trovano impreparati di fronte a questa sintomatologia perché ci raccontano di bambini che in passato sono stati meravigliosi e amati nel contesto sociale. Bravi a scuola, intelligenti, bambini che non hanno mai dato problemi. Bambini che sono stati guardati dai genitori e dai familiari pensando che avrebbero fatto grandi cose. Forse c’è stato da parte dei genitori un iperinvestimento, l’aspettativa di un progetto grandioso che questi bambini avrebbero potuto realizzare diventando grandi. Dall’altra parte ci sono anche genitori che hanno preservato molto questi bambini dalla possibilità di sperimentare dolore e frustrazione».

L’esordio del ritiro, come descrive Lanzi, avviene in momenti di passaggio generazionale: per esempio, in terza media oppure nell’ultimo quadrimestre della quarta superiore. Si manifesta in quei momenti in cui ci si affaccia a un cambiamento. I ragazzi ritirati non hanno necessariamente alle spalle episodi traumatici, né hanno vissuto a scuola bullismo o prevaricazioni violente. A volte l’episodio che fa scattare la chiusura è un commento o una situazione un po’ difficile. «È come se quell’evento apparentemente poco importante crei una frattura nell’individuo – osserva Lanzi –. Si tratta di un momento di grande crisi perché è accompagnato da una profondissima vergogna. Quell’episodio nella loro mente li fa sentire non adatti a crescere. Cominciano a pensare che forse quelle aspettative che tutti avevano nei loro riguardi non si tradurranno mai in realtà. La vergogna è un sentimento che porta a voler sparire dalla scena, a voler non esserci più. Questo si accompagna a un fortissimo sentimento di inadeguatezza». Iniziano spesso i disturbi che molti genitori conoscono bene, come mal di pancia, mal di testa, disturbi del sonno, accompagnati da promesse di tornare a scuola l’indomani.

«I ragazzi, però, non hanno disinvestito sulla scuola, anzi per loro la scuola è importantissima perché significa far vedere quanto valgono – sottolinea la psicologa –. Se arriva un brutto voto può succedere che ci si chiuda e si cominci a non andare più a scuola, in modo che il ritardo si accumula. Poi è difficile rientrare tra i banchi e lentamente ci si sfila». Questi ragazzi hanno comunque un forte desiderio di conoscere e in segreto coltivano interessi curiosità, a volte quasi da adulti. «Mi capita di incontrare adolescenti che sono esperti di matematica, meccanica, scienze, storia e fumetti manga – racconta Lanzi -. Oppure ragazzi che vivono nel mondo virtuale. Stanno attaccati alla rete giorno e notte, a volte invertendo il ritmo sonno-veglia. Internet in questi casi è una via di fuga al buio totale. Il problema è che è l’unico luogo in cui sperimentano».

Ma le tipologie di ritiro sono molto diverse, come evidenzia l’esperta, ci sono anche adolescenti che possono sviluppare sintomatologie psicotiche gravi. A questo punto ci si chiede che cosa possiamo fare per loro. «Le rassicurazioni degli adulti non bastano per infondere coraggio e far tornare questi ragazzi sul palcoscenico sociale – commenta la psicoterapeuta –. Viviamo in un mondo in cui i valori e i punti di riferimento sono stati un po’ stravolti. Oggi risulta difficile per un genitore rassicurare e dire ai propri figli che le cose andranno in un certo modo, che troveranno un lavoro adatto o fare in modo che la propria esperienza possa essere messa al loro servizio. Possiamo dire che bisogna trovare un nuovo modo di essere genitori, con nuovi punti di riferimento. Partendo dal fatto che bisogna provare ad ascoltare un po’ di più per capire di cosa hanno bisogno e costruire nuove risposte proprio perché i bisogni che esprimono sono nuovi».

Una caratteristica rilevante è che gli adolescenti ritirati stanno vivendo un momento di stallo in cui la loro progettualità futura è sospesa. «Non vedono un futuro per loro e si sentono senza futuro – considera Lanzi –. Ma così è difficile tener viva la speranza che si possa stare meglio e che ci sia una soluzione ai propri problemi. Si rende necessario recuperare questi ragazzi nel punto in cui si sono fermati e cominciare ad entrare in ascolto con il deserto relazionale che stanno vivendo. A volte sono andata a casa loro cercando di vivere insieme il buio, il vuoto, lo schermo acceso e provare a capire che cosa è successo. Piano piano si costruiscono delle ‘azioni parlanti’ che possono davvero permettere di uscire da quella situazione. È difficile che dal ritiro si esca soltanto con colloqui di psicoterapia, che pure sono importanti.

Si può dire che accanto alla ‘stanza delle parole’ si debba attivare una ‘stanza di sperimentazione’. Spesso è il ‘fare’ che riattiva i pensieri. Un ‘fare’ che dev’essere fare guidato, che ha un significato importante, cioè vuol dire tornare a sperimentare, a conoscere ed esplorare nuove parti di sé che appaiono più funzionali a costruire relazioni con gli altri, più competenti per poter sostenere la complessità del mondo. Attraverso una sperimentazione reale, laboratori con i ragazzi, partendo da attività espressive o manuali si riattiva la speranza». Per questo le nuove prospettive di trattamento degli adolescenti, come quelle del Minotauro che ha fatto da apripista in questo campo, mirano a costruire interventi multifocali, quindi anche luoghi in cui si possano accompagnare i ragazzi a sperimentare e a costruire nuove parti di sé per completare un’identità adulta. Questo tipo di lavoro coinvolge anche i genitori, che devono responsabilizzarsi e mettersi in gioco, oltre alle agenzie educative che si occupano dei giovani.

«Tutti dobbiamo cercare di capire come fare ad aiutare questa nuova generazione – conclude la psicoterapeuta –. Il fatto, per esempio, di aver voluto tenere lontano i figli dal dolore forse li ha resi molto fragili. Da una parte li ha protetti, dall’altra gli ha restituito un’immagine di sé come di incompetenti, che non possono soffrire o avere momenti di difficoltà nella vita. Mentre è importante riuscire a resistere nelle situazioni difficili, pensare che qualcosa di buono si può sempre fare, che le situazioni si possono cambiare e trasformare. Proprio nella sperimentazione quotidiana di un qualcosa, di un fare, si può costruire un nuovo modo di pensare anche a se stessi e alla propria crescita. Cioè, rimettere in moto il pensiero su di sé. Forse accanto all’adulto competente, che sa cosa è bene e cosa è male, si può affiancare un adulto che si fa mentore, cioè che porta la propria esperienza che può essere condivisa e dalla quale si può ricavare un nuovo sapere».

 

Fonte: avvenire.it