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Condividiamo l’intervista di Simone Marcer a Matteo Lancini per il quotidiano Avvenire.

«Il disagio c’è, lo sappiamo tutti ormai ed è importante per adolescenti e giovani trovare forme di espressione più costruttive. L’aggregazione intanto è un antidolorifico più evoluto delle violenze e delle prevaricazioni. Io personalmente sono molto più preoccupato dal fatto che i giovani spariscano dalla scena sociale. E allora ben venga che i ragazzi si facciano sentire dopo che gli abbiamo detto di star chiusi in casa per due anni». Così Matteo Lancini, psicoterapeuta Presidente della Fondazione “Minotauro” e docente della Bicocca e dell’Università Cattolica.

Cosa ne pensa degli argomenti della protesta?

Che non va presa per un attacco alla maturità. La questione non è quella di una o due prove scritte, ma di ripensare la scuola in generale. Se questi ragazzi riusciranno a fare delle proposte sarà un bene. Spetterà in primo luogo a loro stessi dare progettualità alla protesta. Poi come sempre dipenderà dalle istituzioni mostrare capacità di accogliere le loro richieste.

Teme che non sarà così?

Sono preoccupato da quelli che dicono: ripartiamo come prima. Invece no. Prima abbiamo chiesto ai ragazzi di fare questo sacrificio enorme di chiudersi in casa e adesso non possiamo resettare tutto. Non possiamo dirgli spegnete internet, abbiamo scherzato. Così cosa resta? Che internet, o la dad, erano solo parcheggi per tenerli fermi e farli stare buoni?

Un atteggiamento schizofrenico.

Si parte da una questione di coerenza. Noi, adulti, ci presentiamo con modelli altamente contradditori senza rendercene nemmeno conto. I genitori sono sulle chat di whatsapp, ma i figli a scuola non possono stare su internet. Al lavoro se non hai internet sei un analfabeta, in classe è vietato. Una volta requisivano il pallone quando dovevi fare i compiti, adesso ti staccano telefono e pc. Persino nel rappresentare i problemi c’è incoerenza: la dipendenza da Internet esiste solo fino ai 18 anni, dopo basta, improvvisamente il problema non c’è più. In realtà è la scuola a sparire. L’esperienza di internet si intreccia alle vite di tutti i giorni, non si può pensare di spegnerlo, va inserito in un progetto educativo. I giovani sono alla costante ricerca di modelli di identificazione e di riferimenti, nei genitori, nei professori, non solo sui social. E tutto questo invece ci fa perdere continuamente credibilità e alimenta delusione, abbandono scolastico, atteggiamenti aggressivi e autolesionismo. Tutte cose che abbiamo visto esacerbarsi con la pandemia.

Scuola e famiglia alla fine sono ancora modelli di riferimento?

I giovani oggi in piazza non sono cresciuti con genitori normativi ma con genitori affettivi, con i quali possono aprire un canale di comunicazione straordinario. I giovani vogliono essere considerati dagli adulti, oltreché dai coetanei. Ben vengano quindi i dirigenti scolastici che ascoltano i ragazzi, gli sportelli di aiuto per il sostegno psicologico,

ma soprattutto le famiglie che siano in grado di ascoltare. C’è la necessità di modelli meno infantilizzanti, dove siano responsabilizzati all’interno del sistema scolastico e educativo in generale, dove siano dati loro un ruolo e una responsabilità. Questo significa ascoltare veramente.

Cosa ne pensa della protesta contro l’alternanza scuola lavoro?

Anche qui credo che la protesta non sia contro l’alternanza, ma contro le ultime due morti che scatenano una critica sacrosanta. Ciò che i giovani percepiscono è la rappresentazione di una scarsa attenzione nel proteggerli e nel proteggere il loro futuro. Come dar loro torto? Chi, alla loro età, non percepisce questo fatto è scollegato dalla realtà.