Condividiamo l’intervista di Lucia De Ioanna a Matteo Lancini per La Repubblica.
La schizofrenia e la cecità di un mondo adulto incapace di leggere le proprie responsabilità rispetto alle diverse forme di sofferenza e di disagio espresse oggi sempre più acutamente dagli adolescenti, vengono alla luce in modo lampante in una immagine delineata da Matteo Lancini, psicologo e psicoterapeuta, autore di numerosi saggi tra cui il nuovo Sii te stesso a modo mio (Raffaello Cortina): fotografati ancora prima della nascita, ripresi da una videocamera a partire dal primo bagnetto passando dalla recita dell’asilo e in ogni occasione che da privata si fa pubblica in quanto pubblicamente condivisibile, bambini e ragazzi crescono avvertendo, in qualche modo, che il senso di ogni loro esperienza è dato dal suo essere riflessa in uno schermo.
Rispetto a questa traiettoria, la domanda posta da un padre allo psicoterapeuta, in occasione di un convegno, appare paradossale: “Come mai alla pizzata di fine anno i nostri figli di dodici anni non parlano tra loro, ognuno con lo schermo del cellulare davanti agli occhi? Da dove gli è venuta questa fissazione?”.
Ospite al Palazzo del Governatore per il primo incontro della rassegna Adolescenti e Media digitali, realizzata con il contributo della Regione Emilia Romagna, con il coordinamento del Sistema Bibliotecario Parmense, Matteo Lancini, presidente a Milano della Fondazione Minotauro, ha portato la propria esperienza maturata alla luce del dialogo terapeutico con centinaia di adolescenti e con le loro famiglie, per poi confrontarsi con il folto pubblico presente.
Un incontro offerto come “documento stimolo orale” nella consapevolezza che una generalizzazione implica una riduzione dato che “ogni adolescente ha una sua storia, ogni famiglia ha una sua traiettoria unica, ogni scuola ha una sua cultura affettiva”.
In che modo è possibile sostenere gli adolescenti nell’epoca della fragilità adulta?
Per rispondere occorre prima di tutto sapere chi sono oggi gli adolescenti e in quale tipo di famiglia sono cresciuti, come ha osservato Lancini in apertura dell’incontro “Adolescenti onlife: leggere la società per sostenere la crescita”, dopo essere stato introdotto da Caterina Bonetti, assessora ai Servizi Educativi del Comune di Parma e da Maria Cristina Savi a nome del Servizio Biblioteche del Comune di Parma.
Se nel passato era dominante il modello di famiglia normativa in cui i bambini dovevano ubbidire (“Prima il dovere, poi il piacere”) per poi affrontare il proprio compito evolutivo in adolescenza praticando il rischio di una trasgressione spesso rivolta contro le norme di una società sessuofobica, da diversi anni si è affermato un nuovo modello di famiglia di tipo affettivo-relazionale all’interno della quale l’imperativo categorico che viene assimilato dal bambino fin dalla più tenera età non è più quello della obbedienza ma quello, più subdolo e pervasivo, della socializzazione e del successo.
“La società del narcisismo non nasce con internet ma il giorno della morfologica, con la prima fotografia”.
Poi, prosegue Lancini che all’interno del Minotauro dirige il master Prevenzione e trattamento della dipendenza da internet in adolescenza, guardando al nuovo modello familiare, “il più grande spacciatore di internet, videogiochi e social network in famiglia è la mamma” il cui messaggio è che non conta la vicinanza dei corpi ma la relazione mantenuta attraverso un controllo esercitato a distanza tramite smartphone.
Un controllo pervasivo che colonizza le tante attività in cui il bambino viene coinvolto nella convinzione che il piccolo di casa debba avere molti amici e non debba mai stare da solo.
Tutto questo, con “una pornografizzazione che rende ogni esperienza valida solo se ti riprende qualcuno: entriamo così nella società del narcisismo”.
Come mai poi – la provocazione di Lancini – se non sei a favore di una telecamera senti di non contare niente? “Cresci in una società in cui tua mamma e le maestre sono operatori della Rai ma poi da adolescente il cellulare e i social non li devi usare perché ti viene detto che ti fanno male”.
Il quadro è quello di una società adulta dissociata che proietta sullo schermo di internet a della pandemia la colpa di ogni forma di disagio dei giovani, per liberarsi di una fragilità adulta difficile da riconoscere, difficile forse da ammettere.
Quando poi si cresce, l’adolescente si trova a doversi confrontare non più con il senso di colpa, come avveniva nel passato, ma con un interlocutore più terribile che è l’ideale dell’Io: nella società del narcisismo quello che conta è la bellezza e il successo.
Ma poi arriva il corpo della adolescenza e non sei mia abbastanza bello e popolare.
Un senso di inadeguatezza di cui non ci si dovrebbe stupire dal momento che “si è iniziato a lavorare sulla bellezza e sulla popolarità quando il bambino era ancora nella pancia della mamma continuando poi nei successivi dodici anni ad accompagnare la crescita con modelli estetici e di socialità che generano un ideale dell’Io tirannico”.
Da qui, il senso di vergogna: “Un sentimento terribile per il quale sei tu che non vai bene, ed è quindi meglio scomparire. In qualche modo, devi scomparire per poter sopravvivere”.
Fa stridere le contraddizioni di un modello sociale e educativo, Lancini, senza alcun moralismo ma con una nitidezza di sguardo che è in sé appassionatamente morale, richiamo necessario a una responsabilità adulta: nella società del post- narcisismo, “investiamo i nostri figli di un mandato paradossale chiedendo loro di essere se stessi a modo nostro”.
Mentre il narcisismo aveva portato alla sparizione dell’altro, nell’epoca del post-narcisismo genitori e insegnanti sovra-determinano la mente dell’altro: “Il post-narcisismo ha creato generazioni che, arrivate in adolescenza, hanno il vuoto identitario perché hanno dovuto crescere facendo sentire tranquilli genitori e insegnanti. Se aggiungiamo un’assenza di prospettive future, ecco che abbiamo le sintomatologie di questi ultimi anni”.
Il dolore prende forma in un attacco portato al corpo, sentito come inadeguato per esporsi nell’arena sociale. Diversi i disturbi che segnalano una sofferenza spesso taciuta: il ritiro sociale maschile (“su cui la Regione Emilia Romagna si sta impegnando con fondi importanti”), l’anoressia, i tagli e il tentativo di suicidio.
E se i genitori temono che i figli hikikomori abbiano una dipendenza da internet, stanno proiettando la colpa su uno schermo sbagliato, non comprendendo che invece “i loro figli si salavano proprio grazie a internet dato che sono incapaci di tollerare lo sguardo terribile del mondo esterno”.
La negazione del negativo, dal lato in ombra della sofferenza, arriva al punto che, in una società dove ai funerali invece che stare zitti si applaude perché bisogna rimuovere il dolore, “nemmeno di fronte al suicidio di uno dei nostri figli o studenti ammettiamo che è un suicidio e preferiamo parlare di gioco finito male, dando sempre la colpa a internet”.
Ma il suicidio, avverte Lancini, è un pensiero che attraversa la mente di quasi tutti i ragazzi che però non lo dicono ai genitori perché hanno perso la possibilità di parlare anche del negativo. Arrivando al punto di dissimulare la volontà di uccidersi, assecondando la negazione del mondo adulto, “molti incidenti che avvengono mettendosi alla guida dopo avere bevuto sono in realtà gesti para-suicidari, segni di mancata auto-conservazione: quando in adolescenza non hai identità e non vedi un futuro, stai malissimo, vuoi sparire”.
Superando una reticenza generalizzata, in una società che anestetizza fallimento e dolore, ignorando che gli inciampi fanno parte della crescita, “a casa basterebbe chiedere ai figli se pensano al suicidio, basterebbe mettere in parola anche il grande rimosso del dolore, per abbassare il fattore di rischio”.
E invece di continuare a chiedere di spegnere il cellulare, bisognerebbe chiedere “come va in internet, socializzi o ti stai ritirando?”.
Se la mente è colonizzata dalle attese e dalle proiezioni fatte dai genitori, il corpo è posto sotto sequestro ed è estinta ogni possibilità di fare esperienze con i coetanei al di fuori del radar di controllo adulto: “Sono anni che cerco una scuola primaria che dia lo stesso numero di note ai bambini e alle bambine. Il movimento non è tollerato, il corpo è sotto sequestro in una scuola in cui qualsiasi episodio di conflitto viene messo sotto l’etichetta del bullismo”.
Mentre il corpo è immobilizzato, “i social network restano gli unici spazi per costruire quelle relazioni sociali fuori dal controllo degli adulti che in adolescenza sono fondamentali. Ma poi genitori e insegnati lanciano l’allarme dicendo che i ragazzi sono stati catturati da internet”.
E proprio rispetto all’età in cui occorre costruire la propria identità, dai 12 ai 19 anni, in una società che vive in internet, “la scuola e la famiglia che da anni hanno rotto la loro alleanza, si ritrovano compatte nella richiesta di spegnere internet. Ma vi rendete conto che l’unico luogo non connesso in Itali, in alcuni casi, è la scuola superiore?”.
Restando sul terreno della scuola, “bisogna accettare che gli apprendimenti possano essere un po’ meno che nel passato evitando una dispersione scolastica senza precedenti. Viene detto che avanza la dispersione implicita e che i ragazzi non hanno i requisiti minimi di italiano e matematica. Quindi li bocciano, così diventano dispersi espliciti per salvarli dalla dispersione implicita”.
Nonostante queste contraddizioni del mondo adulto, la scuola, se riesce a non appiattirsi sulla tirannia della valutazione, appare come “il luogo migliore in cui crescere, lo spazio dove i ragazzi, se trovano qualcuno che li pensa, portano tutto di sé, raccontando agli insegnanti tanto della loro esperienza. Mentre gli adolescenti sono espertissimi di relazione, oggi è necessaria un’alfabetizzazione emotiva degli adulti: gli adolescenti non devono dover andare dagli psicologi per poter sentire parlare di come stanno altrimenti l’ansia diventa angoscia, e aumenteranno sintomi e dispersione. Bisogna smetterla di chiedere ai nostri figli e studenti di essere se stessi a modo nostro”.