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Condividiamo l’intervista di Linda Varlese a Matteo Lancini per l’Huffington Post.

“Quella degli adolescenti di oggi è una generazione che non si sente sola in internet. Ma va in internet e sui social a ridurre la solitudine che sperimenta insieme agli adulti”. Matteo Lancini, psicologo, psicoterapeuta e Presidente della Fondazione Minotauro, interviene sulla necessità di vietare gli smartphone nelle scuole (giovedì 12 sulla Stampa ha scritto un commento poco mainstream), esprimendo ad HuffPost un punto di vista che lui stesso definisce “impopolare” forse, ma sicuramente informato. “Esiste un amplissimo movimento di specialisti che si occupano di questi temi, ed incontrano centinaia di adolescenti da anni, tra ritiro sociale, internet e genitorialità, che ritiene che siano gli adulti a spingere i ragazzi su internet e a costruire una società sempre più in quella direzione. È assurdo, dunque, dire poi che sono rovinati da questo e vietarne l’uso”.

Ci spieghi meglio.

Dobbiamo partire da un assunto. Noi abbiamo costruito una società dove non c’è più distinzione tra vita virtuale e vita reale. Si chiama società Onlife, il teorico di questo concetto è Luciano Floridi, il più grande filosofo della scienza mondiale. Quando ho cominciato a studiare internet e la sua diffusione in famiglia c’era la vita reale e la vita virtuale. Oggi le due realtà si sono incrociate: guardi come è cambiata l’editoria, la politica si muove in queste questioni continuamente, gli stessi firmatari di questa proposta vivono sui social e non so perché non si disconnettano a questo punto. Le ricerche ci dicono che è impossibile isolare la variabile uso di internet, smartphone e social perché appunto la realtà virtuale e quella reale oramai sono indissolubilmente intrecciate.

Questo vuol dire che è anacronistica la richiesta di vietare l’utilizzo dei social e di internet ai nostri ragazzi anche se questo ha conseguenze gravi sulla loro salute mentale?

Molte ricerche, io cito Nature, dicono che le cose stanno diversamente. Dicono che semmai sono i ragazzi che stanno già male, i ritirati, ad andare in internet a cercare di risolvere i problemi che hanno già. E per cui queste correlazioni, impossibili da dimostrare, secondo cui sarebbe stato l’arrivo degli smartphone, di internet e dei social a rovinare le nuove generazioni è solo un modo che hanno gli adulti di lavarsi la coscienza. La responsabilità del loro malessere va ricercata, invece, in una società che non è identificata con le nuove generazioni, non li aiuta a costruirsi un futuro, per cui gli aspetti depressivi e l’ansia dipendono da altri fattori, questi sì testimoniati, come il disboscamento del pianeta, la plastificazione dei mari e da una famiglia che ascolta i figli molto di più che in passato, ma che non è in grado in alcun modo di ascoltare davvero chi ha di fronte, cioè le ragioni emotive, le emozioni disturbanti e via dicendo. La soluzione non sta nel vietare i social.

Dunque, come se ne esce?

Da anni propongo che siano gli adulti a mettere in atto una disconnessione se sono in grado, che diano dimostrazione che si possa vivere senza i social: riprendiamo i nostri figli dalla morfologica, alle recite dell’asilo e abbiamo creato una società in cui negli episodi di violenza c’è sempre un telefono acceso e diciamo che è colpa dei social e non di adulti che da quando sono bambini ti insegnano che conta solo essere ripreso, guardato. Smettiamola di portare avanti problematiche di questo tipo perché il vero problema è semmai che internet oggi dovrebbe essere utilizzato di più, ad esempio a scuola. È una cosa drammatica che dopo la pandemia che ha certificato la povertà educativa e digitale abbiamo riniziato questa battaglia sacra contro internet. È una dimensione che non mette al centro i ragazzi. Gli adulti che sono adultocentrici e fragilissimi, (come ho scritto nel mio ultimo libro Sii te stesso a modo mio, il problema è essere adolescenti nell’epoca della fragilità adulta) negli ultimi anni hanno trovato in internet e nella pandemia gli schermi sui cui proiettano la povertà educativa. Facile dire spegnete i cellulari, più difficile è costruire una società in cui i ragazzi possano identificarsi.

Centrale è il ruolo del genitore che prima spinge i ragazzi a rifugiarsi in Internet e poi glielo vieta perché nuoce alla salute. Come è avvenuto questo cortocircuito?

Chi ha fatto ricerche su internet, sa che il satellitare che pesava 1 kg e 100 e l’usavano i manager delle multinazionali, è stato poi trasformato in uno smartphone dalla famiglia. I dati dicono che il più grande spacciatore di internet, videogiochi e social network è la mamma. La mamma è colei, ed è una visione impopolare, che poi dirà che i figli sono stati catturati dalla vita social, dimenticando che la frase è “vietato il gioco del pallone” è stata scritta non dagli inventori di Call of DutyAssassin’s CreedTikTok. Progressivamente la società ha prodotto meno figli, sempre più unici, da tenere sotto controllo perché nel frattempo è venuta meno la comunità educante. Quindi i videogiochi sono diventati l’unico rifugio e hanno sostituito l’unica possibilità di esprimere delle parti e anche aspetti di virilità maschile. Le dico una cosa ancora più impopolare: io sono figlio di una femminista, quando c’erano le pari opportunità, e mandavo a casa tumefatte le compagne di palazzo perché nei cortili di Milano, di Roma, delle cittadine si giocava a palla avvelenata ed era del tutto normale che una ragazza tornasse a casa con il naso rotto come un maschio o con un dente in meno. Oggi se un ragazzo in una scuola tira una pallonata ad una compagna apriamo il Tg1. Io tornavo a casa da solo a 8 anni all’epoca della strage di Piazza Fontana. Cosa voglio dire? Che internet si è diffuso perché gli adulti ne avevano un bisogno enorme. Ha sostituito la socializzazione, il gioco spontaneo che oggi ai giovani è vietato se non sotto la supervisione di un adulto.

Insomma abbiamo fornito a questi ragazzi gli strumenti per tenerli sotto controllo e chiusi in casa. Un modo per iperproteggerli?

Il problema vero è che i social ce li abbiamo messi noi in mano ai ragazzi, perché preferiamo averli in casa ad uccidere un sacco di persone finte, piuttosto che averli denunciati in giro. Tant’è che se dei preadolescenti si aggirano per Roma o Milano non è che la gente li festeggia dicendo “finalmente qualcuno che non perde tempo sui social”. Chiamano la polizia locale e tutti gli enti comunali con cui lavoriamo hanno il problema: dove mettiamo i ragazzi che devono essere chiusi in casa? È assurdo accusare i ragazzi, dopo aver costruito per loro questa società, di essersi rovinati da soli.

Come siamo passati da bambini che tornavano a casa con le cicatrici a genitori che hanno paura del bernoccolo?

È complesso, sono tanti i motivi. Uno degli aspetti risiede nella delega delle funzioni accuditive. Per mia nonna la maternità era l’apice della sua identità. Oggi grazie a Dio non è più così: la donna dà spazio anche ad altri aspetti di sé. Quindi la famiglia delega delle funzioni accuditive alle agenzie parafamiliari (l’asilo, la scuola materna). Facendo queste operazioni inevitabilmente abbiamo aumentato il controllo, in realtà. Secondo aspetto risiede nel fatto che è caduta la comunità educante. Terzo e non meno importante è che oggi viviamo in una società e ha contribuito internet, ma anche una crisi valoriale, di individualismo di massa. All’epoca in cui tornavo a casa da solo, gli anni erano più pericolosi, c’erano i morti politici, ma c’era l’idea che i figli degli altri erano almeno importanti quanto i nostri. Oggi non è più così. I figli sono più unici, più programmati. Il male del corpo di un figlio non rappresenta purtroppo tanto il male per il bambino, ma qualcosa che viviamo come un affronto.

Che cosa possiamo fare, allora?

Gli adulti dovrebbero occuparsi, al di là della tecnologia, della società che hanno creato e di come aiutare i ragazzi ad esprimere le proprie emozioni. Ed invece di dire che stanno male perché isolati sui social, che uccidono per questo e aumentano i suicidi per la stessa ragione, dovrebbero dire che queste cose succedono perché si sentono soli in mezzo agli adulti. Il cellulare si può anche vietare, ma bisogna costruire una società che li accolga, una classe dove si possa usare internet: classi organizzate, dove si possano fare prove Open Internet, temi con l’intelligenza artificiale, una scuola dove non si debba rispondere alle domande, ma che spinga gli studenti a porre le domande giuste. Il problema non è il cellulare, ma la dissociazione degli adulti.