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Condividiamo l’articolo di Giulia Villoresi per La Repubblica con l’intervista a Virginia Suigo sul fenomeno del parental abuse.

Vittoria ha trascorso un’infanzia serena, in una famiglia affettuosa e presente. Poi, intorno ai quindici anni, è entrata in crisi per una delusione amorosa e non è riuscita a rimettersi in pista. Oggi, diciottenne, passa le sue giornate a insultare e umiliare i genitori; quando loro non assecondano le sue richieste, diventa violenta. Tancredi, ventidue anni, ritiene di essere stato danneggiato da una madre iperprotettiva e da un padre passivo: in ragione di ciò ha chiesto loro un risarcimento di duemila euro al mese per cinque anni; l’inadempienza è punita col furto di beni di famiglia, o con le botte. Michele, sedici anni, orfano di madre, si sveglia alle undici del mattino, in pieno orario scolastico, e ordina al padre: “Vecchio, portami in centro!”. Il padre un giorno ha osato rifiutare: Michele ha smesso di picchiarlo solo quando ha visto il sangue.

Il parental abuse, o violenza filio-parentale, è un fenomeno emergente che la letteratura scientifica e l’opinione pubblica faticano ancora a mettere a fuoco: riguarda gli adolescenti che abusano fisicamente, emotivamente e verbalmente dei genitori; in genere emerge tra i dodici e i quattordici anni, con un picco di tra i quindici e i diciassette e uno stabile declino dopo l’ingresso nella maggiore età.

Dati solidi ancora non ce ne sono, in parte perché la consapevolezza sul tema è ancora scarsa, in parte perché il fenomeno rappresenta un tabù culturale e quindi tende a essere sottaciuto. I pochi studi a disposizione indicano un’incidenza tra il 14 e il 20 per cento negli Stati Uniti (che aumenta fino al 64 per cento considerando anche gli abusi psicologici), con dati simili in Spagna, dove dal 2006 è stato creato anche un Centro di intervento e formazione in violenza filio-parentale. In Italia, nel 2015, la Cassazione ha riconosciuto come responsabile di maltrattamento in famiglia anche il figlio, e il criminologo Alessandro Rudelli ha sottolineato che tra il 2014 e il 2017 c’è stato un aumento del 56 per cento delle denunce a carico di minori in ambito familiare.

Chi sono, dunque, questi figli «senza paura e senza pietà»? Chi sono i genitori e come rispondere alle loro richieste di aiuto? La psicoterapeuta Virginia Suigo, dell’Istituto Minotauro, centro d’eccellenza che da trent’anni si occupa di adolescenti, autrice del saggio Figli violenti (Franco Angeli) prova a rispondere. «A sembrare in aumento» dice «non è la violenza parentale che riguarda ragazzi con psicopatologie conclamate, o problemi di tossicodipendenza, ma quella degli adolescenti “normali”, cresciuti in famiglie prive di particolari problematicità».

Questo tipo di violenza consiste nell’umiliazione costante e impietosa del genitore, in un’escalation di aggressività che sembra seguire dei passaggi tipici: il figlio è eccessivamente irritabile, poi comincia a enfatizzare con teatralità i danni che ritiene di aver subito; a delle piccole azioni di danneggiamento subentrano comportamenti intimidatori, la distruzione di oggetti, fino all’aggressione fisica. Benché il fenomeno sia molto complesso, è possibile individuare alcune costanti. Le famiglie mononucleari, composte da madre e figlio maschio, sembrano particolarmente a rischio. Le vittime sono più spesso le madri, tanto che alcuni preferiscono parlare di violenza filio-materna. «In genere madri che incarnano un modello di femminilità sacrificale, poco autorevoli, e del tutto votate alla missione materna» dice Suigo. «O comunque, genitori iper-responsabili, attenti, amorevoli, tiranneggiati da figli cresciuti nell’assunto che tutto sia loro dovuto. A volte si tratta di adolescenti ai quali è mancata la possibilità di sperimentare la separazione e l’indipendenza emotiva». Tra i fattori di rischio ci sono l’abuso di internet, un divorzio, l’isolamento sociale – non solo del figlio, spesso anche del genitore, che identificandosi completamente nel ruolo di padre o di madre si è annullato come persona. «Perciò» dice Suigo, «quando le cose cominciano ad andare male vive la situazione come un fallimento totale: non solo come genitore, come persona». La negazione del problema è una costante di queste esperienze, di cui viene riconosciuta la gravità solo quando la situazione è ormai molto compromessa. «Ad aggravare le cose c’è lo stigma sociale e la colpevolizzazione con cui i genitori si trovano a fare i conti nei primi tentativi di intervento. E questo trova spesso una sorta di collusione nei professionisti, che non solo faticano ad accettare la realtà della violenza». Aiutare i genitori a dismettere il ruolo di vittima è, secondo Suigo, uno degli obiettivi più importanti dell’intervento di psicoterapia. «Per far questo, innanzi tutto bisogna renderli indipendenti dal figlio, convincerli a non votare tutta la loro energia alla causa, occupandosi in primis dei loro bisogni fisici ed emotivi». Come? Per esempio, non avendo fretta nel coinvolgere il figlio nella terapia. «Il messaggio dovrebbe essere: noi lo facciamo in ogni caso, con o senza di te. Nella maggior parte dei casi poi è il figlio che, a un certo punto, sente il bisogno di portare anche il suo punto di vista nella stanza del terapeuta».

La cosa più importante è comprendere quale messaggio l’adolescente rivolge al mondo adulto attraverso il suo comportamento. «In genere dietro c’è la paura. Paura di non essere all’altezza dei genitori, paura di non farcela come adulti». Suigo pensa che il dramma di questi figli fragilissimi abbia una radice socio-culturale. Che il parental abuse sia, in sostanza, un «disturbo etnico», cioè tipico del periodo storico che stiamo vivendo, come i disturbi alimentari. «Tutti i dati mostrano che le nuove generazioni sono poco ribelli e poco inclini alla violenza sociale: il fatto che tra le mura di casa la violenza sia invece in aumento fa pensare a un fenomeno specifico del nostro tempo». L’ipotesi di Suigo è che dietro ci sia «una tendenza della famiglia a costituirsi come un universo sempre più chiuso che impedisce ai figli di confrontarsi col mondo. I loro bisogni evolutivi risultano frustrati. I conflitti non possono fluire all’esterno, ed esplodono all’interno». Le situazioni più drammatiche, in effetti, sembrano accumunate da una dimensione claustrofobica a livello primitivo, fisico. «Quando il genitore fisicamente si frappone, cerca di bloccare l’uscita, l’adulto diventa anche concretamente, non solo simbolicamente, l’ostacolo da superare a ogni costo». In questo senso il lockdown ha amplificato il fenomeno. «Gli adolescenti hanno reagito all’emergenza sanitaria con impressionante mansuetudine. Non hanno protestato e non hanno infranto i divieti. Sicuramente meno di quanto avrebbero fatto le generazioni precedenti. In sostanza, si sono fatti carico delle paure degli adulti, e poi sono scoppiati».

 

Fonte: La Repubblica